I disturbi qui descritti sono riportati alla lettera, seguendone le indicazioni e citando Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, noto anche con la sigla DSM derivante dall’originario titolo dell’edizione statunitense Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, è uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella pratica clinica sia nell’ambito della ricerca.
Nel corso degli anni il manuale, arrivato ora alla 5ª edizione, è stato redatto tenendo in considerazione l’attuale sviluppo e i risultati della ricerca psicologica e psichiatrica in numerosi campi, modificando e introducendo nuove definizioni di disturbi mentali: la sua ultima edizione classifica un numero di disturbi mentali pari a tre volte quello della prima edizione.
Il manuale, secondo gli intendimenti degli autori e dell’APA, dovrebbe essere:
• nosografico: i quadri sintomatologici sono descritti a prescindere dal vissuto del singolo, e sono valutati in base a casistiche frequenziali.
• ateorico: non si basa su nessun tipo di approccio teorico, né comportamentista, né cognitivista, né psicoanalitico, né gestaltico, ecc.
• assiale: raggruppa i disturbi su 5 assi, al fine di semplificare e indicare una diagnosi standardizzata.
• su basi statistiche: si rivolge a esse in quanto il sintomo acquista valore come dato frequenziale; i concetti statistici di media, frequenza, moda, mediana, varianza, correlazione, ecc. giungono a essere essi stessi il “solco” mediante il quale si valuta la presenza o meno di un disturbo mentale.
I disturbi mentali vengono definiti in base a quadri sintomatologici, e questi ultimi sono raggruppati su basi statistiche.
Si tratta di un manuale che raccoglie attualmente più di 370 disturbi mentali, descrivendoli in base alla prevalenza di determinati sintomi (per lo più quelli osservabili nel comportamento dell’individuo, ma non mancano riferimenti alla struttura dell’io e della personalità). Il problema della malattia mentale non è un problema esclusivamente biologico o organicista come si credeva in passato (a tal proposito si parla di “riduzionismo biologico”), l’approccio attuale è necessariamente un approccio “multidisciplinare”: la malattia mentale è in sé stessa multifattoriale e ciò comporta che si tenga conto di tutti i diversi paradigmi di spiegazione. Il disturbo mentale è il risultato di una “condizione sistemica” in cui rientrano: il patrimonio genetico, la costituzione, le vicende di vita, le esperienze maturate, gli stress, il tipo di ambiente, la qualità delle comunicazioni intra ed extra-familiari, l’individuale diversa plasticità dell’encefalo, i meccanismi psicodinamici, la peculiare modalità di reagire, di opporsi, di difendersi.
Dunque, una visione “pluri-fattoriale integrata” della malattia mentale. Non a caso, il DSM-IV-TR non fa uso di termini quali infermità o malattia, ma ricorre al più generale concetto di “disturbo mentale”.
Il DSM è uno strumento di diagnosi descrittiva dei disturbi mentali. Il suo approccio è quello di applicare la relativa stabilità dell’analisi descrittiva dei sintomi di patologie mediche all’universo dei disturbi mentali.
La sua struttura, in riferimento al DSM IV-TR, segue un sistema multi assiale: divide i disturbi in cinque assi, così ripartiti:
ASSE I: disturbi clinici, caratterizzati dalla proprietà di essere temporanei o comunque non “strutturali” e altre alterazioni che possono essere oggetto di attenzione clinica: lo psichiatra cerca la presenza di disturbi clinici che possono essere riconducibili non solo al cervello e al sistema nervoso, ma anche a qualsiasi condizione clinica significativa che il soggetto può avere (per esempio valuterà se il soggetto è sieropositivo, malato cronico, etc.)
ASSE II: disturbi di personalità e ritardo mentale. Disturbi stabili, strutturali e difficilmente restituibili a una condizione “pre-morbosa”; generalmente, ma non necessariamente, si accompagnano a un disturbo di Asse I, cui fanno da contesto. Questo asse è diviso in sottoparagrafi corrispondenti ai diversi disturbi di personalità.
ASSE III: condizioni mediche acute e disordini fisici
ASSE IV: condizioni psicosociali e ambientali che contribuiscono al disordine
ASSE V: valutazioni globali del funzionamento
Per fare qualche esempio, il DSM inserisce nell’ASSE I disturbi come schizofrenia e altre forme di psicosi, e disturbi altrimenti noti come nevrosi, che il manuale ha “abolito” dalla sua nomenclatura. Nell’ASSE II invece sono raccolti disturbi di personalità come quello borderline o quello paranoide. I restanti tre assi possono inquadrare sotto aspetti più ampi il paziente.
Per ciascun disturbo mentale è effettuata una breve descrizione del cosiddetto “funzionamento generale”, che allude alle strategie di gestione psichica e ambientale dell’individuo, a grandi linee, e un elenco di comportamenti sintomatici o stili di gestione delle emozioni o altri aspetti della vita psichica.
Generalmente il DSM richiede un cut-off, un numero minimo di sintomi raccolti per poter effettuare una corretta diagnosi. Ad esempio per il “disturbo antisociale di personalità” si parla di un «quadro pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri» (APA, 1994) e di «tre (o più)» caratteristiche elencate, fra cui disonestà, incapacità di conformarsi alle norme sociali, irritabilità e aggressività.
Di solito il DSM richiede un periodo minimo di presenza dei sintomi per poter effettuare una diagnosi (si parla di alcuni mesi). Altri criteri di esclusione sono l’età di insorgenza del disturbo (per i disturbi di personalità ad esempio si richiede l’insorgenza nell’adolescenza) e una diagnosi differenziale rispetto a disturbi che potrebbero essere accomunati dagli stessi sintomi.
DISTURBI D'ANSIA
La fobia specifica rientra nella categoria dei disturbi d’ansia. Si manifesta con intensa paura ed ansia eccessiva verso oggetti o situazioni specifiche, che di norma non provocano questo tipo di reazione in persone non affette da questo disagio. Spesso si accompagna a comportamenti problematici, come ad esempio il blocco o l’evitamento di particolari situazioni.
Nei bambini, la paura o l’ansia possono essere espresse da pianto, scoppi di collera, immobilizzazione (freezing) o aggrappamento (clinging)
Per effettuare una diagnosi di fobia specifica devono essere presenti alcuni sintomi che la persona sperimenta in presenza dello stimolo fobico:
• Paura e ansia marcate verso un oggetto o situazioni specifici (per es.,volare, altezze, animali, ricevere un’iniezione, vedere il sangue).
• la situazione o l’oggetto fobici provocano quasi sempre paura e ansia immediate
• L’elemento fobico viene attivamente evitato o sopportato con paura e ansia intense
• La paura e l’ansia sono sproporzionate rispetto al reale pericolo rappresentato dallo stimolo fobico, anche rispetto al contesto culturale.
• La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e durano per 6 mesi o più.
• La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti
• Il disturbo non è meglio spiegato dai sintomi di un altro disturbo mentale come la paura, l’ansia e l’evitamento di situazioni associate a sintomi simili al panico o ad altri sintomi invalidanti (come nell’agorafobia); oggetti o situazioni legati a ossessioni (come nel disturbo ossessivo – compulsivo); ricordi di eventi traumatici (come nel disturbo da stress post – traumatico); separazione da casa o dalle figure di attaccamento (come nel disturbo d’ansia di separazione); o situazioni sociali (come nel disturbo d’ansia sociale).
La fobia specifica ha quindi caratteristiche particolari, che possiamo identificare e che ci permettono di distinguerla tra i vari disturbi d’ansia. Come descritto, intense sensazioni di paura e ansia vengono scatenate da un oggetto o una situazione specifica chiamate “stimolo fobico” poiché capaci di innescare questa intensa emozione (per esempio: animali, vedere il sangue, l’altezza, paura di volare).
La paura raggiunge in pochi secondi picchi molto elevati e talvolta anche immaginare o parlare di tali stimoli può innescare una reazione fobica. Anche se il soggetto può intuire o capire che il proprio timore è eccessivo, non riesce a controllare l’emozione intensa e si comporta cercando di evitare in tutti i modi il contatto con l’oggetto o la situazione temuta.
Per questo motivo la fobia tende ad avere un impatto negativo sulla vita delle persone che ne soffrono, perché ne influenza il comportamento, spesso arrivando a danneggiare almeno in parte il funzionamento personale, sociale o lavorativo.
La fobia specifica può, quindi, diventare un vero e proprio disturbo qualora tenda a condizionare in maniera significativa la qualità di vita di chi ne soffre e a perdurare nel tempo.
A volte la fobia specifica può svilupparsi a seguito di un evento traumatico (per esempio, restare bloccati in ascensore), all’osservazione di un evento traumatico accaduto ad altri, a un attacco di panico inaspettato, in quella che diventerà poi la situazione temuta (lo stimolo fobico).
Tuttavia, anche se a volte possiamo identificare degli eventi scatenanti, molto spesso non è possibile risalire o stabilire una ragione specifica per l’esordio di una fobia.
Di solito la fobia si sviluppa nel corso dell’infanzia e, se persiste in età adulta, diventa più difficile superarla e ci sono meno possibilità di remissione.
Anche se l’esordio si colloca più frequentemente tra l’infanzia e l’adolescenza, una fobia può svilupparsi a qualunque età, spesso anche in età avanzata.
La fobia specifica spinge ad evitare gli oggetti e le situazioni che innescano la paura e l’ansia, danneggiando il soggetto che ne soffre e/o modificando il suo stile di vita: spesso la fobia specifica impedisce la normale quotidianità dell’individuo (fare analisi del sangue, prendere metro, utilizzare oggetti comuni, viaggiare, etc.) con una diretta ricaduta su tutte le aree di vita dell’individuo, familiare sociale e lavorativa.
Questo disturbo può quindi provocare un disagio concreto e psicologico davvero significativo. Inoltre, non sempre le persone che non sono colpite da tale problema, riescono a comprendere ciò che il soggetto con fobia specifica sperimenta, e possono quindi mostrare atteggiamenti di scherno, di giudizio o di ridimensionamento, che non facilitano e spesso peggiorano le relazioni del soggetto o che ne compromettono ancora di più il benessere.
La fobia specifica si manifesta con elevati stati di ansia e paura talvolta invalidanti tutte le volte che il soggetto entra in contatto con determinati oggetti e situazioni, e se il soggetto percepisce l’impossibilità di allontanarsi o di evitare la situazione, è possibile che l’ansia e la paura siano così intense da provocare un attacco di panico.
Può accadere che alle condizioni di ansia intensa e di paura si associno alcune manifestazioni fisiche correlate allo stato di allarme, come: tachicardia, aumento della sudorazione, tremore, vertigini, nausea, dolori a petto, formicolii, talvolta svenimento o stato confusionale.
Per chi soffre a causa di una fobia specifica, anche rendersi conto che il proprio timore sia eccessivo spesso non aiuta a gestire il problema in modo più funzionale. Infatti, la sproporzionata paura nei confronti della situazione temuta non è eliminabile con argomentazioni razionali, anche se spesso si è consapevoli dell’esagerazione e dell’intensa reazione ansiosa.
Pur di non sperimentare questa allarmante e spaventosa condizione, il soggetto tende piuttosto a mettere in atto comportamenti di evitamento. Questi comportamenti, se da un lato proteggono temporaneamente la persona dall’incontro con lo stimolo fobico, dall’altro purtroppo rinforzano la paura stessa, instaurando così un vero e proprio circolo vizioso che limita fortemente la vita della persona.
I am text block. Click edit button to change this text. Lorem ipsum dolor sit amet, La Fobia Sociale, o Disturbo d’ansia Sociale, rientra nella categoria dei disturbi d’ansia. Chi soffre di questo disturbo teme le situazioni sociali nei confronti delle quali prova un forte senso di inadeguatezza supportato dalla paura di essere derisi, malgiudicati, goffi, incompetenti e stupidi. Comunemente la persona affetta da fobia sociale quando si trova in un contesto pubblico desidera scomparire.
La Fobia Sociale produce emozioni problematiche come ansia, paura, vergogna, imbarazzo e senso di umiliazione a cui si abbinano immagini di derisione, rifiuto, disapprovazione, pena e terrore.
I sintomi fisici che spesso accompagnano queste emozioni sono: tremori alle mani, palpitazioni, eccessiva sudorazione, malessere gastrointestinale (bruciore di stomaco, diarrea). Questi sintomi, tipici dell’ansia, spesso si associano alle reazioni tipiche della vergogna: rossore in viso, desiderio di sprofondare, voglia di scappare e di sottrarsi allo sguardo altrui e postura dismessa.
Nei casi più gravi il timore del giudizio può sfociare in attacchi di panico.
La Fobia Sociale è un disturbo molto comune: alcune stime individuano il 2-3%, soltanto in Europa, di persone affette da tale disturbo, ma, siccome in molti casi questi soggetti tendono a sottostimarne l’entità e l’importanza o provano vergogna nei confronti del problema, tendono a evitare di intraprendere un percorso psicoterapico, pertanto la stima della percentuale potrebbe essere inesatta, e quindi il numero di persone affette da Fobia Sociale sensibilmente più alto.
Generalmente tale disturbo fa capolino in maniera piuttosto improvvisa durante l’adolescenza, spesso a seguito di un’infanzia caratterizzata da timidezza e inibizione, può durare a lungo e può compromettere l’autonomia, le abitudini, il funzionamento sociale, quello scolastico e lavorativo di coloro che ne sono affetti in maniera significativa e spesso invalidante. Anche le ripercussioni sull’umore sono significative in quanto la Fobia Sociale può generare molta tristezza dovuta alla valutazione del peggioramento della propria vita dall’esordio di tale disturbo, con conseguente perdita di speranza su possibili soluzioni al problema.
La diagnosi di Fobia Sociale avviene se ci si trova in presenza dei seguenti sintomi:
• Eccessiva paura o ansia quando il soggetto si trova in situazioni sociali e pubbliche esposto quindi al giudizio degli altri
• Timore di mostrare le emozioni provate che alimenta la sensazione di inadeguatezza
• Costanti sentimenti di paura o ansia nelle situazioni sociali
• Evitamento delle situazioni sociali
• Sentimenti di ansia e paura sproporzionati rispetto alla situazione sociale che si vive
• Il disagio causato dall’ansia, la paura e l’evitamento delle situazioni sociali risulta clinicamente significativo in quanto esso compromette il corretto funzionamento di aree come l’ambiente lavorativo, scolastico, etc.
La persona affetta da Fobia Sociale teme le situazioni sociali e la preoccupazione del giudizio negativo altrui è così forte da alimentare un pericoloso circolo vizioso.
Un esempio calzante potrebbe essere la seguente situazione: una persona deve esporre un progetto durante una riunione, l’ansia lo fa sudare, la preoccupazione di essere giudicato negativamente perché sudato lo imbarazza molto pertanto decide di non togliersi la giacca. A questo punto sarà ancora più sudato e l’imbarazzo sarà salito notevolmente di livello, al punto da compromettere l’esposizione del lavoro svolto.
Questo circolo vizioso non fa che alimentare il disturbo in quanto la sensazione di disagio, di inadeguatezza, e il timore del giudizio altrui sono ampiamente confermati. E confermando le proprie inadeguatezze e mancanze l’ansia e la paura che ne derivano crescono a loro volta.
Il timore può investire varie aree: l’estetica (non piaccio a nessuno, questi capelli fanno schifo, e se vengo deriso?); il carattere (e se poi non piaccio? E se mi trovassero antipatico? e se si rendono conto che sono un inetto); la fisiologia (e se non riesco a controllare la vescica? potrei anche vomitare…)
Tutti questi timori provati creano un forte disagio che spesso porta il soggetto affetto da Fobia Sociale ad evitare le situazioni che lo porterebbero ad alimentare il disagio, tuttavia questo evitamento potrebbe sfociare in comportamenti sempre più invalidanti come la solitudine o la reclusione. Il soggetto quindi al fronte di evitare l’esposizione prolungata a questi sentimenti potrebbe finire con l’evitare quanto più gli è possibile tutte quelle situazioni che lo sottopongono all’ansia: ad esempio fare una fila, parlare al telefono in un luogo pubblico, partecipare ad una festa o usare mezzi di trasporto pubblico.
Il disturbo di panico rientra nella categoria dei disturbi d’ansia: il nome con il quale comunemente ci si riferisce a tale disturbo è “attacco di panico” che, in realtà non è altro che un sintomo attraverso il quale si manifesta il disturbo.
Ma procediamo per gradi.
In primo luogo è necessario soffermarsi sul significato di “attacco di panico”: aumento brusco e repentino dell’intensità dell’ansia/paura che raggiunge picchi elevati in un breve lasso di tempo.
L’attacco di panico è l’espressione più intensa e acuta dell’ansia, ha le stesse caratteristiche di una crisi che ha la durata di una decina di minuti e che raggiunge velocemente il picco massimo di tolleranza.
Essere vittime di sporadici attacchi di panico non necessariamente vuol dire essere affetti da un disturbo.
Una volta individuate le situazioni responsabili dell’aumento dell’ansia, e stabilito se si è in presenza di “ansia sana”, quella supportata dagli eventi che la scatenano, o “ansia patologica”, risposta eccessiva nei confronti di eventi che la scatenano, è necessario sapere che l’attacco di panico di per sé è un sintomo comune a diversi disturbi, quelli d’ansia in particolare.
Quando si è in presenza dei sintomi ansiogeni la variabile che ci permette di ricondurre tali sintomi ad un disturbo di panico piuttosto che ad un disturbo d’ansia è la loro manifestazione: nel primo caso i sintomi nascono all’improvviso e inaspettatamente, nel secondo caso invece, ovvero quando sono riconducibili ad un evento o una situazione specifici appartengono alla categoria dei disturbi d’ansia.
Più precisamente i disturbi d’ansia di cui l’attacco di panico può essere un sintomo sono: la fobia sociale in cui il panico è scaturito da situazioni sociali nelle quali il soggetto teme di sentirsi a disagio, in imbarazzo, o di essere umiliato, deriso o giudicato negativamente; la fobia specifica in cui è il contatto o la presenza di un oggetto o situazione specifica a scatenare l’attacco di panico (es. la vista del sangue, la presenza di un animale temuto); il disturbo post-traumatico da stress in cui il panico emerge in presenza di stimoli che riportano alla memoria l’evento traumatico che si trova all’origine del disturbo stesso.
Da non sottovalutare alcune condizioni mediche di cui gli attacchi di panico possono essere risposte fisiologiche, come disfunzioni vestibolari, ipertiroidismo, disturbi convulsivi o cardiaci, e l’assunzione di sostanze attivanti come la cannabis, la cocaina e l’abuso di alcool.
Possiamo individuare un attacco di panico in presenza dei seguenti sintomi fisici:
• Incremento della sudorazione
• Senso di oppressione al petto
• Respiro corto, sensazione di soffocamento o accelerazione del ritmo del respiro (iperventilazione)
• Accelerazione del ritmo cardiaco
• Tremori e stati convulsivi agli arti
• Aumento o diminuzione della temperatura
• Senso di intorpidimento o di formicolio
• Disturbi addominali e senso di nausea
• Senso di sbandamento e di vertigine
• Ipertensione e ipotensione (forte aumento e forte calo della pressione sanguigna)
Per capire se abbiamo a che fare con una persona che sta avendo un attacco di panico è necessario che si manifestino almeno 4 dei sintomi sopra descritti.
Si aggiungono ai sintomi fisici le seguenti sensazioni:
• Sensazione di perdita del contatto con la realtà
• Sensazione di estraneità e distacco dall’ambiente
• Paura di impazzire e di perdere il controllo
• Paura di morire
• Senso di irrimediabilità
La persona che ha sofferto o soffre di attacchi di panico generalmente attua una serie di comportamenti che la proteggono dalla possibilità di ritrovarsi in presenza di nuove crisi. Generalmente questo comprende l’evitare di frequentare luoghi e condizioni in cui ci si è trovati a dover fronteggiare un attacco di panico,e ciò potrebbe estendersi anche alla frequentazione di luoghi affollati, lontani da quelli famigliari, o da cui è difficile uscire.
Oltre all’ evitamento di una serie di condizioni che la persona affetta da disturbo di panico designa come scatenanti di possibili crisi future, come ad esempio non frequentare luoghi chiusi e affollati, non utilizzare l’auto e i trasporti pubblici, non allontanarsi da zone considerate sicure, ci si può trovare in presenza di comportamenti protettivi, come portare con sé medicinali anti ansia, uscire unicamente accompagnati da persone di fiducia, muoversi solo in zone limitrofe a strutture mediche.
I comportamenti evitanti e quelli protettivi possono diventare invalidanti: piuttosto che rischiare di avere un nuovo attacco di panico la persona tende ad evitare l’esposizione alle stesse caratteristiche in presenza delle quali in passato si è scatenata la crisi, ma questo potrebbe voler dire non dirigersi più a scuola o a lavoro, così come il tentativo di proteggersi potrebbe voler dire non frequentare più gli amici rinunciando a dirigersi in luoghi affollati.
L’ansia reca con sè una serie di sintomi sia cognitivi, come il senso di sbandamento, di confusione mentale, di irrealtà, la paura di morire di impazzire o di perdere il controllo, che fisici , come nausea, sudorazione, palpitazioni, dolore al petto, che si manifestano in relazione alla modificazione della quantità di adrenalina presente nel sangue in presenza di situazioni del tipo “attacco-fuga”
Assumendo che esiste un tipo di ansia “sano” che regola la nostra capacità di rispondere correttamente a situazioni del tipo “attacco-fuga”, (es. scansarci da un lato in presenza di un’auto che ci viene velocemente incontro), in presenza della stessa situazione una risposta eccessiva (es. scansarci di lato quando l’auto che noi percepiamo come vicina è in realtà ancora molto lontana), ci pone al cospetto di quella che possiamo definire “ansia patologica”.
In sostanza quindi, l’ansia che consideriamo patologica è quella che innesca reazioni spropositate dinanzi a situazioni alle quali non corrisponde un reale pericolo.
Etimologicamente parlando il termine Agorafobia deriva dalla fusione di due termini greci, Agorà e phobia, che rispettivamente tradotti significano “piazza” e “paura”. Clinicamente parlando invece siamo di fronte ad un disturbo d’ansia che sarebbe decisamente riduttivo tradurre in “paura delle piazze” (inteso come spazi aperti).
Il termine Agorafobia sta ad indicare un preciso disagio: coloro che ne soffrono affrontano con estrema difficoltà, e in casi gravi con estremo terrore, le situazioni in cui non si palesa una via di fuga, gli spazi molto affollati, le condizioni in cui all’occorrenza sarebbe difficile trovare soccorso e i luoghi non famigliari.
Il contesto storico-culturale attuale svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo di questo disturbo, in quanto comunemente esso si manifesta in associazione a stimoli ambientali molto specifici ed oggettivamente moderni!
Ma procediamo per ordine: il timore e il senso di smarrimento che una persona affetta da agorafobia può provare trovandosi in un centro commerciale ha molti elementi comuni con il timore e lo smarrimento che un individuo poteva provare in passato al cospetto di una foresta, diversamente dal senso di protezione scaturito dalla produzione di punti di riferimenti che caratterizza la vita in un villaggio piuttosto che in un piccolo centro.
La perdita di punti di riferimento spinge gli individui con una propensione al disagio ed una predisposizione genetica all’instaurarsi di un disturbo, a fare di questa mancanza la struttura portante dell’agorafobia.
Le conseguenze dell’aggravarsi di tale disturbo possono portare all’isolamento, alla dipendenza da figure parentali di riferimento, alla fallacia nell’affrontare normali impegni scolastici, lavorativi, sociali e ad un incremento degli attacchi di panico.
Fino a poco tempo fa, prima dell’ultima revisione del DSM, l’agorafobia veniva considerata come una sottocategoria del disturbo di panico, nel DSM-5 invece, viene classificata come un disturbo d’ansia a sé stante distinto dal disturbo di panico.
Perché si effettui una diagnosi di agorafobia è necessario provare forte ansia e/o paura nelle seguenti situazioni:
• Quando si utilizzano mezzi pubblici
• Quando il soggetto si trova in uno spazio aperto e ampio come un supermercato, una piazza, un ponte
• Quando ci si trova in uno spazio chiuso e di dimensioni limitate
• Quando ci si trova in casa o fuori in mancanza di una figura familiare di riferimento
• Quando si prova la paura di avere un attacco di panico in presenza di sconosciuti o in luoghi estranei e aperti
• Quando ci si trova in coda o tra la folla
L’agorafobia emerge quando il soggetto che ne è affetto adotta comportamenti di evitamento nei confronti dei luoghi e delle situazioni definite ansiogene.
Un soggetto agorafobico può trovare intollerabile stare in uno spazio in cui non è presente una via di fuga, trovarsi in casa da solo, uscire di casa senza un famigliare, andare ad un concerto, o più semplicemente al supermercato, prendere mezzi di trasporto pubblico, trovarsi in fila, e tutta un’altra serie di condizioni che generalmente si traducono in azioni comunemente compiute da ognuno di noi.
Il soggetto agorafobico per tanto evita tutte le situazioni che gli generano ansia o quando non può evitarle le affronta nonostante provi un livello di ansia elevatissimo. Tutto questo può diventare invalidante e l’aggravarsi del disturbo può spingere la persona che soffre di agorafobia a provare un costante senso di disorientamento e perdita di direzione determinato dall’accrescere del panico.
Il panico, il sintomo per eccellenza dell’agorafobia, riveste all’interno di questo disturbo due ruoli importanti: altre ad essere un sintomo può diventare una causa del disturbo.
In termini più semplici l’agorafobico teme gli attacchi di panico al punto da intrappolarsi nel classico circolo vizioso in cui la paura stessa di provare panico aumenta a livello esponenziale il senso di panico.
Questo circolo vizioso può attivare in maniera impropria uno dei sistemi biologici innati posti alla base dell’autodifesa di ogni specie: il freezing, ovvero la capacità di “raggelarsi” fingendosi morti. Il freezing insieme alla fuga e all’attacco rientra a pieno titolo tra i più arcaici meccanismi di difesa di ogni specie: così come gli animali utilizzano questa difesa per sottrarsi all’attacco dei predatori che, credendoli morti rinunciano a loro, così gli uomini attraverso uno svenimento al punto giusto sono riusciti a sottrarsi a fucilazioni di massa!
Ovviamente la difesa del freezing viene attuata nel caso in cui non vi è possibilità di difendersi con l’attacco o quando non si dispone di una via di fuga. L’agorafobia invece spinge l’individuo ad utilizzare tale difesa in risposta a condizioni nettamente inferiori a quelle che generalmente ne prevedono l’utilizzo
Il disturbo d’ ansia generalizzato indica uno stato di apprensione continuo e persistente che non trova riscontro in un’unica situazione ma in molteplici eventi. Tale disturbo viene definito ‘generalizzato’ perchè costituisce la risposta, spesso inadeguata, eccessiva o non commisurata, a molteplici circostanze.
Non tutte le manifestazioni tipiche dell’ansia sono da attribuire alla presenza di un disturbo.
L’ansia è parte integrante della vita di ogni individuo e ricopre un ruolo importantissimo nella valutazione e la regolazione degli eventi: ad esempio l’ansia prima di un esame è “sana” e fisiologica e se non è eccessiva ci aiuta nella performance, l’ansia di arrivare in ritardo ad un appuntamento sicuramente ci consente di perdere meno tempo.
L’ansia ci segnala le situazioni di pericolo e quelle spiacevoli, e ci prepara ad affrontarle con una risposta corporea ed emotiva adeguata, regola il nostro stato di vigilanza, ed è dunque presente in ognuno di noi. Entro certi livelli è dunque funzionale, ma se il livello sale rischia di offuscare la nostra capacità di giudizio e rende meno lucido il ragionamento.
L’ansia di chi soffre di questo disturbo tende ad essere eccessiva, pervasiva e poco controllabile interferendo dunque notevolmente con il funzionamento normale della persona.
Le preoccupazioni quindi rispetto ad un funzionamento normale sono:
• Più numerose, frequenti e durature
• Invasive e pervasive
• Si susseguono rapidamente
• Sono relative ad eventi futuri quasi sempre improbabili
• Spesso accompagnate da sintomi fisici
• Impossibili da controllare, gestire o rimandare.
Molte persone che soffrono di questo disturbo presentano, sintomi come la sensazione di avere un nodo alla gola, mani appiccicose, sudorazione eccessiva, brividi dl freddo, nausea, diarrea, difficoltà a deglutire, e tali esternazioni fisiche unite alle preoccupazioni si succedono rapidamente (al termine di una ce n’è subito un’altra), sono accompagnate da emozioni di allarme riguardo eventi catastrofici futuri (con una bassa probabilità che accadano realmente), riducono la capacità di pensare lucidamente, sono molto difficili da controllare
• Irrequietezza motoria che può portare il paziente a compiere gesti incondizionati, quale ad esempio il movimento continuo della gamba. In letteratura il fenomeno viene descritto come Restlestness.
• Elevata difficoltà di concentrazione con conseguenti vuoti di memoria.
• Difficoltà nell’addormentarsi o a mantenere uno stato di sonno profondo.
• Nervi tesi e facile irritabilità.
• Sensazione di stanchezza e affaticamento.
• Dolori o forte tensione muscolare.
I sintomi suddetti si aggiungono alla costante paura dello scatenarsi di eventi catastrofici, ad un perenne stato di agitazione, ansia e inquietudine.
Le persone affette da tale disturbo generalmente producono pensieri che riguardano lo scatenarsi di una catastrofe, sentono un senso di inadeguatezza nei confronti del giudizio altrui, provano la costante paura di deludere un famigliare o un amico, provano il timore di non fare bene il proprio lavoro, di non essere all’altezza e tante altre emozioni di questo tipo.
Il soggetto, intrappolato letteralmente in questo stato emotivo, trascorre la maggior parte del suo tempo alle prese con rimuginazioni che innescano immancabilmente un circolo vizioso: ad esempio pensieri come “cosa succederà se il mio lavoro non viene scelto?” “sono un completo fallimento!” “cosa diranno di me?” “basta, devo smetterla di pensare a questo o impazzirò”, generano la convinzione, propria di chi soffre di questo disturbo, che le preoccupazioni siano in qualche modo un tentativo di controllare l’ansia.
Ad esempio pensieri come “se mi preparo al peggio sarò più preparato ad accoglierlo” in qualche modo tranquillizzano, hanno una funzione protettiva, ma, tuttavia, non fanno che alimentare il circolo vizioso e la degenerazione verso pensieri sempre più negativi, rinforzando quindi il disturbo.
Esempi di comportamento di individui affetti da un disturbo d’ansia generalizzato comprendono: il controllo pedissequo del proprio stato di salute, la produzione di innumerevoli telefonate al parente di turno volte a scongiurare o anticipare una tragedia, la ricerca costante di rassicurazione, un eccessivo perfezionismo (che non è altro che la risposta ad un sistema di valutazione e di ricerca di obiettivi troppo elevati e spesso irraggiungibili), il procrastinare e rimandare gli impegni, l’evitare di guardare il telegiornale per non entrare in relazione con le brutte notizie.
Questi comportamenti e molti altri ancora, sono volti unicamente al rinforzo di tale disturbo che generalmente viene però scambiato per un semplice tratto della personalità, motivo per cui difficilmente la persona affetta da disturbo d’ansia generalizzato approccia ad un percorso di terapia.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità solo il 5% della popolazione mondiale, soprattutto donne, soffre di questo disturbo, e solo un terzo di coloro che ne soffrono, si rivolge ad uno specialista della salute mentale, in quanto i sintomi fisici dell’ansia spesso portano i pazienti a rivolgersi ad altre figure professionali (es. medico di base, internista, cardiologo, pneumologo, gastroenterologo).
DISTURBI DEPRESSIVI
Il disturbo depressivo maggiore, comunemente conosciuto con il nome di “depressione” è il disturbo psicologico più diffuso al mondo.
La depressione rientra nell’ambito dei disturbi dell’umore e colpisce la capacità di pensare in modo lucido e realistico, altera le funzioni corporee quali ad esempio sonno e appetito, riduce la motivazione a qualsiasi tipo di azione e provoca una terribile sofferenza emotiva correlata alla sensazione di non riuscire ad uscire da questa condizione.
Generalmente chi ne soffre vive in una condizione di costante malumore, ha pensieri negativi e pessimistici circa sé stessi e il proprio futuro e prova costantemente tristezza e insoddisfazione.
Naturalmente questo stato emotivo compromette l’area lavorativa, sociale familiare, affettiva di coloro che ne sono affetti minando la capacità di svolgere semplici e routinarie attività quotidiane.
Le componenti psicologiche principali che caratterizzano la depressione e allo stesso tempo ne favoriscono il mantenimento sono:
• La ruminazione mentale: continuo e ripetitivo interrogarsi sulle cause e sulle conseguenze dei propri problemi e delle proprie difficoltà, svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento del disturbo in quanto impedisce la lungimiranza e lo sviluppo di strategie di problem-solving. Es: “perché capita a me?” “cosa c’è che non va in me?” “cosa ho di sbagliato?” “perché sto così male?”
• Il ritiro: riduzione e/o evitamento di contatti sociali, di normali attività quotidiane e dello svolgimento di compiti basati sull’idea di non esserne capaci, che sia troppo complicato e faticoso, o che non porti alcun beneficio. Questa componente contribuisce al mantenimento del disturbo in quanto inibisce la sperimentazione di stati mentali positivi, il senso di efficacia personale, la valutazione oggettiva dei propri limiti e delle proprie capacità.
• Autovalutazione negativa: tendenza a denigrarsi e a valutarsi negativamente come inutile, inadeguato, indegno o sfortunato. Es: “non valgo nulla” non sono in grado di fare niente!” “tutti mi considerano un perdente”.
• Negativismo: tendenza a fare previsioni pessimistiche sul mondo e sul futuro, a sminuirsi costantemente e a focalizzare l’attenzione sul mancato raggiungimento della soddisfazione veicolando l’attenzione sugli aspetti responsabili di questa mancanza. Es: “ci sarebbe riuscito chiunque, “non c’è nulla che vada bene!”, “se solo ne fossi capace!”
L’azione congiunta di queste componenti psicologiche incide sullo sviluppo di circoli viziosi che mantengono nel tempo l’umore depresso e alimentano i comportamenti che ne sono la causa.
La riduzione della produttività lavorativa, delle attività ricreative, la fatica nell’affrontare le incombenze quotidiane, il procrastinare tali incombenze, rinforzano la sensazione di incapacità e il senso di fallimento.
Spesso i soggetti depressi provano apatia e disinteresse, smettono di uscire, evitano il contatto con altre persone e arrivano a trascorrere molta parte del proprio tempo libero impegnati in attività passive come guardare la televisione e stare sdraiati sul letto, e il mancato riconoscimento dei propri successi, nonché la gratificazione che ne deriva, perpetuano il senso di insoddisfazione.
I sintomi che caratterizzano un disturbo depressivo sono molteplici e affinché venga effettuata una diagnosi di depressione il focus non è la quantità di sintomi rilevata quanto piuttosto i diversi livelli di gravità che un sintomo manifesta. A volte la depressione presenta sintomi di bassa intensità, legati ad alcuni momenti di vita, mentre altre volte il soggetto depresso si sente così sopraffatto da non riuscire a svolgere le normali attività quotidiane.
• Umore depresso e tristezza
• Ridotta capacità di trarre piacere dalle attività che generalmente procurano gioia e soddisfazione
• Senso di colpa costante
• Autocritica e autosvalutazione
• Senso di fallimento
• Senso di fatica e di incapacità a portare a termine qualsiasi attività
• Mancanza di speranza, pensieri negativi e idee di morte
• Pianto costante
• Irritabilità
• Difficoltà a concentrarsi, attentive e decisionali
• Sonnolenza e aumento della durata del sonno
• Risvegli notturni angosciosi con difficoltà a riaddormentarsi
• Inappetenza
• Riduzione del desiderio sessuale
La depressione può colpire chiunque, indipendentemente dall’età, dal sesso, dal livello culturale e dallo stato socioeconomico, tuttavia dagli studi sulla popolazione emerge un’incidenza maggiore del disturbo sulle donne. Tale differenza sembra dovuta ad una predisposizione innata delle donne ad essere maggiormente autocritiche e inclini per natura a provare sentimenti di tristezza, mentre negli uomini la reazione al disturbo più frequente ha luogo con comportamenti disfunzionali quali ad esempio l’uso di alcool e droghe.
Il comune denominatore tra maschi e femmine affetti da depressione è la sensazione che gli altri non possano comprendere il loro stato d’animo e questa sensazione si accompagna a tutta una serie di emozioni quali la tristezza, l’angoscia, il senso di colpa, il vuoto, la mancanza di speranza nel futuro, la perdita di interesse per qualsiasi attività, irritabilità e ansia.
I principali sintomi comportamentali che si associano a questo stato emotivo come la riduzione delle attività quotidiane, la difficoltà nel prendere decisioni e a risolvere problemi, l’evitamento delle persone con conseguente isolamento e la riduzione dell’attività sessuale sfociano molto spesso in tentativi di suicidio.
Le persone affette da questo disturbo presentano un modo di pensare caratterizzato da regole disadattive, aspettative irrealistiche e pensieri negativi su sé stessi, sul mondo e sul futuro. Un esempio di queste assunzioni disadattive può essere il seguente: il depresso fa riferimento a dei “doveri” che sente di dover assolvere per rispettare i propri valori, quindi, ogni suo pensiero come “non posso sbagliare”, “ se fallisco è perché non valgo nulla”, “non posso essere amato perchè non piaccio a nessuno” “non posso essere debole”, alimenta il disturbo in quanto non ammette la possibilità di errore.
Pensare di essere incapaci è disfunzionale rispetto al pensiero che un compito sia difficile, pensare di non piacere è disfunzionale rispetto a chiedersi in cosa si può migliorare.
Si evince quindi che l’attribuzione di un sistema di valutazione compromesso sia alla base del disturbo depressivo e funga da mantenimento al disturbo stesso: chi soffre di depressione generalmente presenta aspettative irrealistiche, ha degli standard eccessivamente elevati e ha una concezione negativa di sé e del mondo.
Il disturbo bipolare, conosciuto anche con il nome di “psicosi maniaco-depressiva”, rientra nella categoria dei disturbi dell’umore e più precisamente in una sotto-categoria definita “disturbi depressivi” dall’ultima revisione del DSM-5. Come ci indica la definizione “bipolare” (due poli) questo disturbo è caratterizzato dall’oscillazione tra due diversi stati emotivi opposti: la maniacalità e la depressione.
In alcuni casi gli episodi di mania o di depressione includono gravi alterazioni della forma e del contenuto del pensiero, che compromettono, anche se momentaneamente, la capacità di giudizio e di esame di realtà della persona affetta da bipolarismo. Tali alterazioni producono sintomi psicotici: tra questi le allucinazioni (sentire voci o odori inesistenti) e i deliri, che generalmente riflettono la fase dell’umore che in quel momento si sta attraversando e sono in qualche modo coerenti ad essa.
Ad esempio deliri di grandezza, come credere di essere un personaggio importante, si verificano durante la mania, mentre è più frequente che i deliri di colpa, come credere di aver commesso un terribile crimine, compaiano durante la depressione.
Generalmente è molto difficile diagnosticare un disturbo bipolare nonostante sia un disturbo piuttosto diffuso: le cause di questa difficoltà nella diagnosi derivano dal fatto che la persona affetta da tale disturbo nella maggior parte dei casi si rivolge ad un terapeuta durante la fase depressiva, spesso non attribuendo un significato patologico alle fasi maniacali, che difficilmente vengono percepite come egodistoniche (cioè come fonte di disagio) e quindi possono essere omesse o negate come aspetti sintomatici.
Il terapeuta, quindi, per poter diagnosticare con facilità la presenza di un disturbo bipolare ha la necessità di essere a conoscenza dell’alternanza delle due fasi o deve comunque approfondire, nel colloquio con il paziente l’eventuale presenza o la pregressa esistenza di fenomeni di umore espanso.
La genetica svolge un ruolo fondamentale nella genesi del disturbo bipolare, in quanto le basi biologiche di tale disturbo sono ereditarie, tuttavia, è importante sapere che tale ereditarietà può potenziare l’aggravarsi del disturbo ma non può determinarne la causa.
Le determinanti genetiche quindi solo nell’interazione con l’ambiente danno luogo all’insorgenza della patologia.
Generalmente i primi sintomi si manifestano durante l’adolescenza per poi aggravarsi in età adulta, e l’esordio della patologia può avvenire attraverso un grave episodio maniacale e sfociare poi in una serie di sintomi propri dell’episodio depressivo.
Il disturbo bipolare ha un decorso cronico, per questo motivo la cura è incentrata principalmente sulla terapia farmacologica, attraverso la somministrazione di farmaci stabilizzanti dell’umore e anti-depressivi guidata e supportata da un percorso psicoterapico. Tra gli stabilizzanti è spesso usato il litio, soprattutto nella fase acuta della mania. Altri farmaci utilizzati nel trattamento del disturbo bipolare sono: il valproato sodico, la carbamazepina e la lamotrigina (efficace nella prevenzione delle ricadute depressive).
Nei casi in cui è necessario assumere farmaci antipsicotici vengono somministrati: l’olanzapina, il risperidone, la quetiapina e la clozapina.
In abbinamento alla terapia farmacologica è sempre consigliata la psicoterapia che, tuttavia non può essere sostituita ai farmaci e non risulta efficace da sola nella prevenzione delle ricadute.
Secondo il Manuale Diagnostico dei disturbi i sintomi caratterizzanti il disturbo bipolare sono i seguenti:
• Eloquio rapido, caratterizzato da teatralità, eccessivo e spesso pressante e intrusivo.
• Eccessivo gesticolare
• Tono e volume della voce impropriamente alti
• Bruschi cambiamenti di pensiero, facile distraibilità, fuga delle idee
• Ridotto bisogno di sonno
• Pianificazione eccessiva e partecipazione ad attività multiple
• Aumento della libido
• Aumento della socievolezza
• Scarso giudizio
• Irrequietezza
I cambiamenti e le alterazioni cognitivi ed emotivi causati dal disturbo possono portare alla messa in atto di comportamenti impulsivi, spesso con un aumento dell’aggressività fino alla violenza; alla modifica del proprio atteggiamento con un aumento della disinibizione e di comportamenti inappropriati; allo sviluppo di atteggiamenti ostili e pericolosi derivanti da una diminuita capacità di giudizio e dall’aumento della sospettosità.
Spesso l’impatto dei sintomi peggiora a causa della difficoltà della persona a percepire, specialmente nelle fasi di maniacalità, la propria condizione come un disturbo, con conseguente resistenza ai trattamenti.
La caratteristica principale di un disturbo bipolare è l’oscillazione dell’umore tra due stati, quello maniacale e quello depressivo:
Episodio maniacale: caratterizzato dalla persistenza di un umore elevato e decisamente superiore alla norma, autostima ipertrofica con presenza di aspirazioni eccessive e forte senso di grandiosità. Eccessiva espansività, euforia, e spesso irritabilità. Agitazione psicomotoria con netta riduzione delle ore di sonno, spiccata ed eccessiva loquacità, successione continua ed accelerazione dei pensieri.
Il soggetto in preda ad un episodio maniacale tende a distrarsi facilmente, in quanto anche gli stimoli più irrilevanti tendono a catturare l’attenzione, provocando la diminuzione della capacità di giudizio e della capacità di autocritica. Durante questo episodio si registra un aumento delle attività lavorative, scolastiche, sociali, dell’attività sessuale, e un maggiore coinvolgimento in attività potenzialmente dannose (shopping sfrenato, investimenti avventati, comportamenti sconvenienti e disinibiti)
Episodio depressivo: caratterizzato da un umore depresso, senso di sconforto, disinteresse nei confronti di attività solitamente reputate piacevoli, sensazione di vuoto, pessimismo e prolungato sconforto. Presenza di uno stato alterato nel comportamento alimentare in cui si ci può essere un aumento o, più spesso, una diminuzione dell’appetito; nel bioritmo, l’alterazione del sonno può oscillare tra l’insonnia e l’ipersonnia.
Durante questa fase si evidenzia un rallentamento psicomotorio che mina la capacità di pensare o di prendere decisioni, una mancanza di energia, sentimenti di autosvalutazione ed eccessivo senso di colpa. Tale episodio è inoltre caratterizzato da pensieri di morte e tentativi di suicidio.
Di solito tra i due episodi può esserci una fase di transizione, caratterizzata da sintomi misti.
Talvolta la fase si presenta nella forma di un episodio misto.
Episodio misto: presenza di sintomi maniacali e depressivi contemporaneamente che induce la persona affetta da un disturbo bipolare a provare irritabilità e ansia pervasiva.
Il disturbo distimico (ora definito “Disturbo depressivo persistente” nel DSM – 5) rientra nella categoria dei disturbi dell’umore; comporta uno stato depressivo più attenuato rispetto a quello della depressione maggiore, ma insidioso e prolungato nel tempo.
La distimia impatta negativamente sulla qualità della vita del soggetto, ripercuotendosi sulle relazioni sociali e sull’attività lavorativa, che il soggetto affetto porta avanti con grande sforzo.
Il disturbo distimico si manifesta frequentemente nella fascia d’età che va dai 18 e i 45 anni; può avere un esordio precoce (<21 anni) o più tardivo (>21 anni).
Non sempre, nella storia clinica del soggetto, ci sono stati disturbi dell’umore antecedenti all’esordio della distimia; inoltre, il soggetto non ha mai presentato disturbo ciclotimico, episodi ipomaniacali o maniacali.
Il disturbo distimico comporta uno stato depressivo più attenuato rispetto a quello della depressione maggiore, ma insidioso e prolungato nel tempo; impatta negativamente sulla qualità della vita del soggetto, ripercuotendosi sulle relazioni sociali e sull’attività lavorativa, che il soggetto affetto porta avanti con grande sforzo.
Il disturbo distimico si manifesta frequentemente nella fascia d’età che va dai 18 e i 45 anni; può avere un esordio precoce (<21 anni) o tardivo (>21 anni).
Come per molte altre condizioni di interesse psichiatrico, non è stata individuata una causa definita per il disturbo distimico. I modelli che spiegano lo sviluppo ed il manifestarsi delle condizioni psicopatologiche, considerano alcuni fattori causali, che interagiscono fra di loro: fattori biologici, su base genetica complessa, fattori psicologici e fattori sociali.
Tali fattori rendono un individuo più vulnerabile, diciamo più “portato” a sviluppare, posta la presenza di altri fattori scatenanti, il disturbo in questione.
Tra i fattori scatenanti, sono stati messi in luce in quanto rilevanti: eventi stressanti, esperienze traumatiche, lutti precoci, ambiente invalidante; utilizzo e abuso di sostanze.
Con il passare del tempo, l’atteggiamento quasi perennemente cupo, triste, e taciturno del distimico spesso genera negli altri sentimenti di rabbia, di stizza e di impotenza, che tenderanno a generare reazioni di indifferenza o evitamento verso tale atteggiamento. L’evitamento degli altri rafforza nel distimico la bassa autostima, l’insicurezza e l’autopercezione negativa.
Si innesca in questo modo un circolo vizioso che rende impossibile al soggetto depresso la richiesta di aiuto per paura di sentirsi respinto, e il senso di disagio che gli altri provano verso l’atteggiamento del distimico rafforza l’isolamento e l’introversione del soggetto in questione.
Alla distimia possono associarsi altre psicopatologie come la depressione maggiore, i disturbi d’ansia, i disturbi alimentari, i disturbi di personalità, i disturbi somatoformi, abuso di alcol e/o di stupefacenti.
Affinché si possa diagnosticare un Disturbo depressivo persistente, (definizione di distimia nel DSM-5) l’umore depresso, presente per la maggior parte del giorno, deve protrarsi per un periodo di almeno 2 anni.
I sintomi della distimia sono gli stessi della depressione clinica, ma più attenuati e prolungati nel tempo:
• Scarso appetito o iperfagia;
• Insonnia o ipersonnia;
• Scarsa energia, o astenia;
• Difficoltà di concentrazione o di prendere decisioni;
• Sentimenti di disperazione;
La distimia può manifestarsi con diversi livelli di gravità. Alcuni soggetti presentano sintomi depressivi di bassa intensità, talvolta correlati ad eventi di vita che generalmente producono uno stato emotivo “giù di tono”, e che possono essere vissuti con maggiore risonanza e impatto dai soggetti interessati; altri, invece, si sentono così depressi e sopraffatti da non riuscire a svolgere le normali incombenze quotidiane.
È necessario, per poter porre diagnosi di distimia, che il soggetto non sia mai stato libero dai sintomi per un periodo prolungato di tempo antecedente alla diagnosi clinica.
Il disturbo distimico in genere non è facilmente rilevabile, perché data la lieve intensità dei sintomi che l’accompagna esso giace latente tra le difficoltà e i disagi caratteristici del carattere e del modo di essere dell’individuo che ne è affetto. Spesso, purtroppo, questo può portare a un riconoscimento e a una diagnosi tardiva.
Nelle sue forme più gravi, la distimia è caratterizzata da un numero più elevato di sintomi presenti e ad un livello più intenso e più duraturo; tuttavia, perché si possa affermare di essere affetti da tale disturbo è necessario che la congiunzione di almeno due dei sintomi sopra elencati operi per un lungo lasso di tempo.
Il disturbo distimico si manifesta prevalentemente con disagi che si ripercuotono sul piano lavorativo, sociale, familiare ed interpersonale: generalmente il soggetto distimico riesce ad espletare le proprie funzioni lavorative e ad avere rapporti sociali, ma con uno sforzo notevole.
La ciclotimia rientra nell’ambito dei disturbi dell’umore, è una forma meno grave del Disturbo Bipolare, i cui sintomi si presentano in forma meno acuta.
Questo disturbo è caratterizzato da periodi in cui si alternano depressione e ipomania, che generano nell’ individuo che ne è affetto un’oscillazione dell’umore che attraversa fasi di iperattività, creatività e spirito d’iniziativa e fasi di apatia, ipersonnia, lentezza di riflessi e difficoltà di concentrazione.
Pur trattandosi di episodi e sintomi di lieve intensità, l’elevata frequenza di presentazione e i rapidi cambiamenti di umore che li accompagnano, finiscono per comportare complicazioni di ordine psicosociale e impatto sul funzionamento globale.
La diagnosi di ciclotimia non è semplice, dato che anche altri quadri diagnostici possono presentare rapidi e intensi cambiamenti di stato, che coinvolgono oscillazioni della sfera affettiva (per esempio il disturbo borderline di personalità).
In alcuni casi è presente una comorbidità con il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività dell’adulto.
Le manifestazioni, il decorso e le caratteristiche della ciclotimia hanno degli elementi trasversali sia ai disturbi dell’umore Depressione, Bipolarismo) che ai disturbi della personalità (Disturbo Borderline) con i quali condividono alcuni sintomi anche se con diversa durata e intensità e con diverso significato rispetto alla psicopatologia di base e ai contenuti interni.
Nel trattamento farmacologico dei disturbi dell’umore, la ciclotimia, viene gestita attraverso la somministrazione di farmaci volti alla stabilizzazione del tono dell’umore, come: il litio, gli anticonvulsivanti (acido valproico e la lamotrigina) o ancora gli antipsicotici o il clonazepam.
Tuttavia, la psicoterapia riveste un ruolo fondamentale per dare al paziente la capacità di comprendere e gestire in modo più funzionale, le manifestazioni complesse legate al disturbo.
La terapia farmacologica è naturalmente una strada che va valutata con attenzione e comunque sempre associata ad un percorso di psicoterapia, volto proprio a dare al soggetto più potere e consapevolezza nella gestione di una condizione che spesso tende a stabilizzarsi e a protrarsi nel tempo.
I cambiamenti d’umore propri del disturbo ciclotimico sono relativamente lievi ed oscillano tra periodi di lieve depressione e lieve euforia. I sintomi più frequenti della ciclotimia sono:
• Per almeno 2 anni (almeno 1 anno nei bambini e negli adolescenti) ci sono stati numerosi periodi con sintomi ipomaniacali che non soddisfano i criteri per un episodio ipomaniacale e numerosi periodi con sintomi depressivi che non soddisfano i criteri per un episodio depressivo maggiore.
• Durante questo periodo i sintomi si sono presentati per la maggior parte del tempo e l’individuo non è stato senza sintomi per più di 2 mesi.
• Non sono mai stati soddisfatti i criteri per un episodio depressivo maggiore, maniacale o ipomaniacale.
• I sintomi hanno un impatto negativo sul funzionamento sociale, lavorativo e in altre aree importanti e non sono attribuibili ad altre cause.
In sintesi:
• Pregressi e numerosi periodi di umore elevato (ipomania) e pregressi e numerosi periodi di sintomi depressivi per almeno due anni;
• I periodi di stati d’animo stabili e i periodi privi di sintomi di solito durano meno di due mesi.
• I sintomi influenzano in modo significativo e negativo la vita sociale, lavorativa, scolastica e interpersonale, data anche la forte instabilità del soggetto;
• I sintomi non possono essere attribuiti a, e non c’è storia clinica precedente di episodi maniacali, depressione maggiore o disturbo schizoaffettivo, nè allucinazioni o deliri.
• I sintomi non sono causati da un abuso di sostanze o da una condizione medica.
La ciclotimia è un disturbo che tende a durare molti anni, esordisce precocemente nella vita (anche in infanzia e in adolescenza) e viene spesso considerato come un fattore di predisposizione ad altri disturbi dell’umore. In particolare, circa il 15-25% dei pazienti con ciclotimia sviluppa in seguito un disturbo bipolare.
Il disturbo ciclotimico presenta diverse difficoltà nella sua diagnosi in quanto i sintomi in comune con vari disturbi possono far pensare ad altre patologia, infatti affinché si possa diagnosticare una ciclotimia serve un lunghissimo periodo di osservazione.
I sintomi devono presentarsi per almeno due anni con periodi di ipomania e periodi di umore depresso, tuttavia tali sintomi devono presentarsi ad un livello piuttosto lieve affinché si possa escludere la presenza di un Disturbo Depressivo Maggiore.
Il soggetto affetto da ciclotimia attraversa periodi in cui l’umore si stabilizza che tuttavia non superano i due mesi.
Il periodo caratterizzato da ipomania in cui il soggetto vive picchi di euforia, dorme meno tempo ed ha un umore elevato, generalmente anticipa o segue ciclicamente un periodo di episodi depressivi, umore molto aggressivo e ostile e indifferenza.
Il susseguirsi di questi sintomi causa al soggetto con disturbo ciclotimico un disagio significativo, influendo sul lavoro, sulle attività sociali e personali.
DISTURBI DI PERSONALITA
Disturbo Paranoide di Personalità
Il disturbo paranoide di personalità si presenta con un’incidenza maggiore negli uomini e colpisce dallo 0,5 al 2,5% della popolazione.
Le persone affette da questo disturbo interpretano le interazioni con gli altri come malevole, umilianti e minacciose ed hanno la tendenza a percepire il mondo come ostile e nemico.
Il soggetto paranoico è sospettoso e diffidente, vive costantemente sentimenti di sfiducia, è cauto, guardingo e ipervigilante. È un disagio che provoca una significativa sofferenza sia per il soggetto sia per le persone a lui care.
Il soggetto affetto da questo disturbo generalmente preferisce limitare il contatto con gli altri e tende ad isolarsi e a condurre uno stile di vita solitario, spesso alterna periodi in cui prevale l’ansia ed altri in cui prevale la rabbia.
Le maggiori difficoltà che vive un soggetto paranoico sono l’incapacità di porsi nella prospettiva dell’altro e la difficoltà a distinguere il mondo esterno da quello interiore.
Alcuni sintomi sono rintracciabili in altre patologie, ad esempio gli stati depressivi, espressione tipica dei disturbi d’ansia e dell’umore, l’eccessiva sospettosità, tipica del disturbo borderline di personalità, il ritiro sociale, tipico del disturbo schizoide.
Il disturbo paranoide di personalità è stato studiato a lungo dalla comunità scientifica ma sono emerse poche evidenze empiriche riguardo al suo decorso e alla storia famigliare: una forte incidenza di tale psicopatologia si è riscontrata nei soggetti prigionieri, rifugiati politici, pregiudicati e immigrati.
I sintomi che caratterizzano un disturbo paranoide di personalità sono i seguenti:
• Senso di minaccia e di pericolo
• Paura di subire aggressioni
• Stato di allerta costante
• Tensione fisica eccessiva
• Credenze illusorie e deviate
• Ipersensibilità alle critiche
I seguenti sintomi vengono scaturiti da diverse espressioni del disturbo: il soggetto paranoico prova costantemente un senso di pericolo e di minaccia nei confronti degli altri, pertanto il suo approccio è diffidente, scontroso e guardingo, ha la convinzione di essere trattato ingiustamente, si sente vittima di un mondo ostile e di conseguenza prova rabbia, risentimento, irritazione e il suo comportamento può essere aggressivo; altre volte il disagio può esprimersi in maniera più intensa, la persona può provare sentimenti di esclusione ed emarginazione e di conseguenza l’ansia, il senso di solitudine e la tristezza possono accrescere la tendenza all’isolamento ed al ritiro.
Il soggetto paranoico ha una particolare rappresentazione del mondo caratterizzata da un senso di minaccia incombente: è presente una pervasiva sensazione di sentirsi fregati, raggirati, traditi e questo stato può portare la persona affetta da questo disturbo a reagire in modo aggressivo, in quanto la sua visione del mondo è vissuta come un dato oggettivo.
Un individuo affetto da paranoia spesso è incapace di distinguere i propri stati mentali dalla realtà che lo circonda: è rigidamente convinto delle sue idee e sensazioni e non riesce a metterle in discussione, è molto complicato accettare scenari alternativi circa le proprie convinzioni e aspettative, poiché ritiene obbiettiva la realtà del suo mondo interiore.
Quando i sentimenti prevalenti sono quelli di sfiducia e di esclusione il soggetto paranoico interpreta il mondo come evitante, si sente ingiustamente escluso, e queste sensazioni tenderanno a portarlo verso l’isolamento, incrementando sempre di più il suo senso di inadeguatezza e la sensazione di essere costretto a comportarsi e sentirsi così.
Il comportamento del soggetto affetto da disturbo paranoide, tuttavia, influenza le interazioni con gli altri in maniera da alimentare il disagio: l’aggressività, la sospettosità, la mancanza di fiducia tendono a scatenare nelle persone i comportamenti che prevede e che rinforzano la patologia. Il soggetto paranoico cerca continuamente il significato sottostante alle intenzioni degli individui con cui interagisce, può essere geloso in modo patologico, spesso sospetta che il partner gli sia infedele e cerca costantemente prove che confermino quest’infedeltà.
Difficilmente il soggetto paranoico chiede aiuto e si affida ad un terapeuta, tuttavia qualora se ne presenti la possibilità si è riscontrato che il tipo di approccio più efficace nel trattamento della paranoia è quello comportamentale in quanto l’azione sul comportamento può raggiungere esiti positivi nella diminuzione della sospettosità migliorando le capacità di interazione sociale.
Se il paziente presenta sintomi che interferiscono con il funzionamento quotidiano, o costanti idee suicidarie, può essere introdotta come supporto alla psicoterapia, la terapia farmacologica, attraverso la somministrazione di farmaci regolatori dell’umore.
Il disturbo schizoide di personalità è caratterizzato dall’assenza di desiderio di stabilire relazioni e da una conseguente difficoltà nel farlo. Il soggetto affetto da un disturbo schizoide di personalità limita le relazioni con gli altri, solitamente si circonda di un nucleo ristretto di amici, e rifugge quanto più gli è possibile qualsiasi tipo di relazione sociale.
Questa condizione naturalmente si ripercuote in tutti gli ambiti, infatti il soggetto schizoide tende a scegliere un tipo di lavoro che riduce al minimo le interazioni con gli altri, in genere non si lascia coinvolgere in relazioni intime, e riduce al minimo la partecipazione a qualsiasi tipo di attività che prevede la presenza di altre persone.
Le conseguenze più evidenti di questo tipo di disturbo sono un eccessivo isolamento sociale, l’assenza totale o quasi di amicizie e di figure di riferimento, difficoltà nel formulare risposte appropriate ad eventi e/o situazioni importanti e atteggiamento passivo nei confronti di circostanze avverse.
Riguardo questa patologia non esistono delle cause certe e specifiche, ma, se si tiene conto di possibili fattori di rischio, questi sono da rintracciarsi nel temperamento presente nel soggetto fin dall’infanzia e che riguarda una capacità ristretta di provare emozioni, una scarsa empatia, una tendenza all’isolamento, uno stile deficitario nella comunicazione.
Tali fattori di vulnerabilità possono causare problemi già nella prima infanzia o nell’adolescenza.
Il soggetto affetto da disturbo schizoide di personalità generalmente percepisce sé stesso come un osservatore non partecipe di ciò che accade e si svolge intorno a lui, tende a isolarsi e preferisce gli animali alle persone, con le quali limita il contatto al minimo.
In genere ha una carriera scolastica buona in cui può arrivare ad eccellere in moltissimi ambiti; quelli che predilige risultano essere i più astratti, come la matematica, la filosofia, l’informatica. Sul piano sociale e relazionale invece, risulta estraneo e indifferente alla vita di classe.
In ambito professionale tende a scegliere quei tipi di lavoro che non prevedono un rilevante contatto umano, e in tal caso può svolgere brillantemente e con notevoli risultati mansioni ad un alto livello di difficoltà purché questo non implichi la relazione e il contatto umano.
La psicoterapia individuale generalmente è il tipo di trattamento più scelto, verosimilmente anche perché limita l’interazione ad un rapporto con una sola persona.
Spesso, tuttavia, è consigliabile, con la giusta preparazione del soggetto, proprio la psicoterapia di gruppo, per esporre e preparare il paziente al contatto sociale con altre persone.
La terapia farmacologica generalmente è somministrata solo in casi di forti crisi d’ansia.
I sintomi che caratterizzano un disturbo schizoide di personalità sono i seguenti:
• Non desidera, né prova piacere nelle relazioni affettive, incluso il far parte di una famiglia
• Quasi sempre sceglie attività individuali
• Dimostra poco o nessun interesse ad avere esperienze sessuali con un’altra persona
• Prova piacere in poche o in nessuna attività
• Non ha amici stretti o confidenti, eccetto i parenti di primo grado
• Sembra indifferente alle lodi o alle critiche degli altri
• Mostra freddezza emotiva, distacco o affettività appiattita
Il disturbo schizoide di personalità si manifesta attraverso la presenza di un pervasivo distacco dalle relazioni sociali e di una gamma ristretta di espressioni emotive nelle situazioni interpersonali. Tale condizione inizia prima dell’età adulta ed è presente in diversi contesti.
I soggetti affetti da tale disturbo mostrano freddezza emotiva e non sembrano in grado di riconoscere le emozioni in sé stessi e negli altri. Appaiono freddi e distaccati, provano un senso di lontananza ed una totale mancanza di interesse nel creare rapporti o legami profondi.
La mancanza di desiderio verso la ricerca di relazioni tende a condurre l’individuo schizoide ad uno stato di isolamento. I pensieri dominanti sono del tipo: “preferisco fare da solo”, “meglio stare da solo”.
Nelle relazioni affettive intime, la sostanziale mancanza di interesse e di desiderio in ambito sessuale rende l’esperienza non appagante a livello affettivo, anche se generalmente tali esperienze sono rare e talvolta addirittura assenti.
Nelle occasioni sociali a cui non riesce a sottrarsi, il soggetto schizoide a volte può provare forte ansia e talvolta la sensazione di essere controllato.
Il disturbo schizotipico rientra tra i disturbi di personalità: i soggetti affetti da questo disturbo presentano delle alterazioni, delle “stranezze” nei contenuti del pensiero che ruotano di solito attorno ad alcune tematiche, quali la credenza di essere oggetti di complotti ( ideazione paranoide ), interpretazioni scorrette riguardo la correlazione tra eventi slegati tra loro, credenze bizzarre e pensiero magico (convinzione di essere dotati di particolari abilità intuitive, preveggenti e percettive).
La convinzione di essere diversi dagli altri e quindi incompresi, tende ad incentivare nei soggetti schizotipici, un comportamento che spesso li porta all’isolamento, o quanto meno che limiti l’interazione con gli altri.
Il sistema di credenze e percezioni che caratterizza il disturbo schizotipico di personalità influenza il comportamento che trova espressione nell’esasperazione di concetti come la superstizione, la chiaroveggenza, la telepatia e un’accentuazione dei sensi.
Nella maggior parte dei casi l’esordio del disturbo schizotipico di personalità è da rintracciarsi nel primo gradino dell’età adulta. Gli studi di settore hanno rilevato che questo disturbo colpisce circa il 3% della popolazione con un’incidenza maggiore in presenza di parenti biologici affetti dal medesimo disturbo o da schizofrenia.
La conseguenza maggiormente invalidante provocata da questo disturbo è sicuramente l’isolamento, apparentemente l’unica soluzione che un soggetto schizotipico trova in risposta ad un’inadeguata e fallimentare interazione, al disagio provocato dalle relazioni sociali e agli scompensi di vario genere, talvolta anche con episodi psicotici, derivanti dallo stress provocato dall’esposizione a condizioni insopportabili.
I soggetti schizotipici hanno una sensibilità elevata e pur avendo difficoltà nel riconoscimento delle prorie emozioni non ne hanno alcuna ad individuarle e riconoscerle negli altri. Il senso di estraneità alimentato da una profonda sensibilità e rinforzato da un sistema di idee spesso riconducibili alla schizofrenia (non è un caso infatti che una percentuale di soggetti schizotipici possa sviluppare una forma anche più lieve e nella maggior parte dei casi guaribile di schizofrenia) conducono talvolta ad episodi depressivi e psicotici.
Il trattamento dei disturbi di personalità in linea di massima presenta una difficoltà iniziale molto difficile da gestire, essa sta proprio alla base del disturbo: i soggetti schizotipici non sono consapevoli di avere un disturbo e difficilmente chiedono aiuto anche se le problematiche correlate al disturbo stesso li conducono sulla soglia della consapevolezza.
Superato questo problema il tipo di terapia consigliato nel trattamento del disturbo schizotipico è quella individuale a lungo termine.
Nelle sue forme più gravi il trattamento del disturbo schizotipico si avvale di un supporto farmacologico che prevede la somministrazione di antipsicotici e/o antidepressivi, conforme agli stati e agli episodi rilevati.
Il disturbo schizotipico di personalità deve il suo nome alla discendenza dalla schizofrenia con cui condivide, in maniera ridotta e non cronica, un’alterazione del pensiero, un contatto con la realtà moderatamente compromesso e una logica priva di linearità.
I sintomi che caratterizzano un disturbo schizotipico di personalità sono rintracciabili attraverso l’osservazione di un comportamento manifesto che è il prodotto di un forte disagio nell’interazione con gli altri derivante dalla convinzione di essere diversi, di un’incapacità nel riconoscere i propri sentimenti, di un’affettività ridotta e trattenuta e di un’inadeguatezza nel riconoscimento del contesto che spesso sfocia in comportamenti inappropriati.
Spesso i soggetti schizotipici utilizzano un linguaggio farcito di eccessive metafore, stereotipi e analogie che risulta incomprensibile, poco chiaro, oscuro e vago. Assumono un comportamento che non tiene conto delle convenzioni sociali, sono eccentrici e hanno un aspetto bizzarro, ultilizzano un abbigliamento spesso stravagante o trasandato.
Vivono stati di forte ansia sociale, spesso associata a paure paranoiche, che investono le persone indipendentemente dal grado di familiarità che li lega.
Il disturbo schizotipico di personalità ha in comune con altri disturbi alcuni sintomi: quelli riguardanti ansia e preoccupazione nell’ interazione con gli altri, caratteristici del disturbo evitante di personalità, la tendenza all’isolamento, propria del disturbo schizoide di personalità e un sistema di idee di riferimento per alcuni tratti molto simile a quello presente nel disturbo paranoide di personalità ma meno persecutorio e ostile.
I tratti che caratterizzano un disturbo schizotipico si palesano nel soggetto che ne soffre attraverso la stranezza del comportamento, la stravaganza nel modo di vestirsi e agghindarsi e la bizzarria del linguaggio.
Il soggetto schizotipico, come accennato, nutre la convinzione di essere dotato di un sesto senso, di poteri attui a prevedere il futuro e di una sensibilità superiore alla media, e questa, abbinata altresì ad un sistema di idee intriso di una significativa dose di paranoia, alimenta un’inadeguata capacità relazionale che a sua volta rinforza la sensazione di distacco e diversità che conducono lo all’isolamento.
Il disturbo antisociale di personalità si esprime attraverso un’incapacità a conformarsi alle norme e alle regole sociali, è caratterizzato da una difficoltà a provare empatia e a comprendere gli stati d’animo altrui, per tanto i soggetti affetti da tale disturbo tendono a violare le norme civili, a compiere azioni illegali e a ledere i diritti degli altri.
Il soggetto antisociale si mostra incurante nei confronti delle regole, della legge, della legalità in generale e l’indifferenza verso l’osservanza di una determinata e socialmente riconosciuta condotta porta, nella maggior parte dei casi, a compiere azioni degradanti, manipolative, immorali con l’unico scopo di trarne piacere o profitto, e per le quali difficilmente proverà rimorso.
Le emozioni caratterizzanti tale disturbo si manifestano attraverso aggressività, impulsività, noncuranza, indifferenza, rabbia, disprezzo e distacco.
Il disturbo antisociale di personalità ha in comune con altri disturbi alcuni dei suoi comportamenti di base:
i comportamenti antisociali sono propri della schizofrenia o possono derivare da un episodio maniacale , alcuni atti antisociali come lo spaccio di sostanze stupefacenti, i furti e le aggressioni sono la conseguenza di disturbi correlati all’assunzione di sostanze, l’eccessiva disinvoltura, la superficialità, la seduttività e l’assenza di empatia sono presenti anche nel disturbo narcisistico e istrionico di personalità e la tendenza a manipolare caratterizza il disturbo borderline di personalità.
La differenza sostanziale che permette di distinguere il disturbo antisociale dagli altri disturbi sta nella motivazione a compiere determinati tipi di azioni:
i comportamenti manipolativi in altri disturbi sono volti all’ottenimento di considerazione, invece il soggetto antisociale li attua con l’unico scopo di ottenere gratificazione personale.
In un disturbo paranoide l’aggressività può essere l’espressione di un desiderio di vendetta, nel disturbo antisociale è l’espressione della mancanza d’empatia e la totale indifferenza nei confronti dell’altro.
Le caratteristiche peculiari di questo disturbo sono osservabili soprattutto nell’interazione del soggetto antisociale con gli altri:
• I comportamenti aggressivi spesso si traducono in risse, liti o percosse
• L’impulsività spesso li induce a lasciare il lavoro o a compiere azioni irresponsabili
• Una bassissima tolleranza alla frustrazione li spinge ad ottenere gratificazione personale senza controllo
• La totale mancanza di empatia e di interesse nei confronti altrui in caso di accudimento dei figli spesso li induce a causare malnutrizione, abbandono o percosse
Generalmente il disturbo antisociale ha un decorso cronico, insorge durante l’adolescenza ma può attenuarsi in età adulta grazie all’interiorizzazione, seppure parziale o minima, di norme sociali, e grazie all’interazione prolungata con gli altri.
È stato inoltre osservato che le probabilità di essere affetti da un disturbo antisociale derivano maggiormente da questioni ambientali piuttosto che da determinazioni biologiche: in alcuni studi sull’adozione è stato osservato che il comportamento dei figli adottati e di quelli naturali di persone affette da disturbo antisociale sono simili ed ugualmente inclini allo sviluppo di tale disturbo.
Le difficoltà di inserimento sociale dovute ai comportamenti indotti da questo disturbo spesso sono la causa di emarginazione nei soggetti antisociali che in molti casi non riescono a raggiungere una stabilità economica, oppure li porta ad essere reclusi in strutture di pena, o ancora li induce ad una morte prematura che in molti casi avviene per incidenti, omicidi e suicidi.
Il disturbo antisociale di personalità esordisce generalmente già durante la fase adolescenziale come conseguenza di un disturbo della condotta, disturbo che consiste in comportamenti che violano i diritti altrui e delle norme sociali:
I sintomi caratterizzanti disturbo antisociale sono i seguenti:
• Incapacità di conformarsi alle norme sociali
• Disonestà, tendenza a mentire, tendenza ad usare nomi falsi e a truffare
• Impulsività e incapacità di pianificare
• Aggressività e irritabilità
• Inosservanza della sicurezza propria e altrui
• Irresponsabilità soprattutto in ambito lavorativo e applicativo in generale
• Mancanza di rimorso e indifferenza verso le conseguenze delle proprie azioni
La sintomatologia propria del disturbo antisociale induce il soggetto che ne è affetto ad attuare comportamenti che ne sono la massima espressione:
• l’incapacità a conformarsi alle norme sociali fa sì che il soggetto antisociale compia azioni illegali come truffe, rapine, atti violenti e abusi
• la tendenza a mentire rende il soggetto incline a trovare all’esterno giustificazioni a comportamenti che, secondo lui sono indotti o causati da azioni altrui
• l’impulsività nel prendere decisioni dettate dall’impeto del momento, e spesso determinate unicamente dalla ricerca di gratificazione dei propri bisogni, insieme all’incapacità di pianificare, rendono difficile l’inserimento nel mondo del lavoro, nonché impossibile mantenerne uno per un periodo duraturo
• la ricerca di scontri, gli abusi e gli assalti fisici esplicano efficacemente un temperamento aggressivo
• la mancanza di rimorso rende più facile ai soggetti antisociali il compimento di azioni degradanti
• ciò che è alla base dell’inosservanza delle norme sociali è proprio l’incapacità di interiorizzare la norma in generale.
Generalmente si procede al trattamento di questo disturbo dopo una terapia farmacologica volta alla riduzione di alcuni sintomi senza la quale non si potrebbe condurre il paziente ad un percorso terapeutico.
Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da oscillazione e instabilità emotiva nell’immagine di sé, nel tono dell’umore e nelle relazioni interpersonali.
I soggetti affetti da disturbo borderline passano da un estremo all’altro: tendono a valutare le persone comebuone o cattive, amiche o nemiche, la loro emotività si districa tra sentimenti di odio e d’amore, tra il sentirsi estremamente felici al profondamente infelici.
Nelle interazioni sociali, gli altri tenderanno ad essere idealizzati o svalutati dal soggetto borderline, che applica alle relazioni la stessa dinamica nella la valutazione di sé.
Le emozioni predominanti sono la paura del rifiuto e dell’abbandono.
La disregolazione emotiva si esprime attraverso cambiamenti dell’umore repentini e spesso immotivati, reazioni sproporzionate ad azioni come semplici disattenzioni o critiche. Questo perché la vulnerabilità emotiva e la difficoltà a gestire emozioni e comportamenti proprie del disturbo borderline tendono a rendere deficitaria la capacità di padroneggiare le emozioni.
La difficoltà nella gestione delle emozioni fa sì che il soggetto borderline provi stati emotivi di intensità e durata estremi: la paura diventa panico, la tristezza depressione, la rabbia ira, e nonostante l’intensità si misuri anche nelle emozioni positive, queste ultime vengono sopraffatte da quelle negative a causa di una difficoltà di regolazione e di schemi cognitivi disfunzionali.
La consapevolezza di tale difficoltà agisce in maniera profonda sulla paura del rifiuto e sulla percezione del proprio fallimento e, prima che il soggetto impari a gestire tali emozioni, esso tenderà a reprimerle. Il disturbo borderline può manifestarsi già dal periodo adolescenziale; pertanto il soggetto che ne è affetto esprime le emozioni represse attraverso azioni autolesioniste come il procurarsi tagli, bruciature e lesioni di vario genere.
Il comportamento impulsivo che è alla base dell’autolesionismo è un tentativo disfunzionale per regolare a annullare il dolore emotivo: nel soggetto borderline l’azione impulsiva mitiga il dolore ma provoca in seguito vergogna, senso di colpa e sfiducia, emozioni che a loro volta alimentano il dolore creando un circolo vizioso che in alcuni casi viene espresso anche attraverso comportamenti suicidari.
Il disturbo borderline di personalità è tra i disturbi che maggiormente sono oggetto di osservazione clinica e di ricerca, in quanto le caratteristiche comportamentali che ne sono proprie si traducono in azioni che talvolta possono risultare rischiose per l’incolumità dei soggetti borderline: nelle situazioni più estreme, come in presenza di reiterati tentativi di suicidio, o di ideazione suicidaria conseguente ad un evento spiacevole, può essere necessario il ricovero in strutture specializzate e un controllato trattamento psicofarmacologico.
Differenti orientamenti teorici e psicoterapici hanno formulato differenti tipi di trattamento nella cura del disturbo borderline.
In linea di massima, gli interventi terapeutici, indipendentemente dall’approccio, mirano a modificare soprattutto quelle aree che influenzano il comportamento, determinano una scarsa integrità del sé, causano distorsioni della realtà e minano l’interazione sociale del paziente.
In casi in cui la sintomatologia del paziente borderline presenta uno scostamento verso un livello più acuto, la compresenza di un trattamento farmacologico che prevede la somministrazione di farmaci stabilizzatori dell’umore, neurolettici o antidepressivi può risultare necessaria ai fini della cura del disturbo.
Caratteristiche pervasive di instabilità nelle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, e una marcata impulsività. Tali caratteristiche iniziano a manifestarsi nella prima età adulta e sono presenti in diversi contesti, come evidenziato da 5 (o più) dei seguenti elementi:
• Sforzi disperati per evitare un abbandono reale o immaginario;
• Relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate da alternanza tra gli estremi di idealizzazione e svalutazione;
• Alterazione dell’identità: immagine di sé o percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili;
• Impulsività in almeno 2 aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (per es., spese sconsiderate, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate);
• Ricorrenti comportamenti, gesti o minacce suicidari, o comportamento automutilante;
• Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (per es., episodica intensa disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore e soltanto raramente più di pochi giorni);
• Sentimenti cronici di vuoto;
• Rabbia inappropriata, intensa, o difficoltà a controllare la rabbia (per es., frequenti eccessi di ira, rabbia costante, frequenti scontri fisici);
• Ideazione paranoide transitoria, associata allo stress, o gravi sintomi dissociativi.
La compresenza di più sintomi genera il caos nella personalità borderline: le conversazioni con soggetti borderline appaiono spesso prive di un filo conduttore, le descrizioni di sé sono spesso contraddittorie, la comprensione dell’altro può essere parziale, in quanto esso è percepito come “buono” o “cattivo” contemporaneamente in due entità distinte, slegate.
Il disturbo borderline ha in comune alcune caratteristiche con altri disturbi, con il disturbo bipolare, ad esempio, con cui condivide l’alternanza di stati d’euforia e di depressione, che tuttavia nel disturbo bipolare si verificano indipendentemente dal contesto, mentre nel soggetto borderline hanno luogo soprattutto in relazione alle interazioni interpersonali.
Con il disturbo dissociativo condivide la confusione riguardo la propria identità, il cambiamento di tono dell’umore e una gamma di comportamenti associati.
Le aree d’interesse del disturbo borderline di personalità sono quella affettiva, quella cognitiva e quella comportamentale; l’instabilità delle relazioni interpersonali, l’alterazione dell’immagine di sé ed una marcata impulsività sono l’espressione di come il disturbo agisce su queste aree.
Affinché si possa diagnosticare il disturbo borderline è necessario trovarsi in presenza degli elementi suddetti: uno sforzo estremo volto all’evitare l’abbandono e il rifiuto, un quadro di relazioni interpersonali caratterizzate dall’alternanza di idealizzazione e svalutazione, l’alterazione dell’identità che appare come marcatamente instabile, la tendenza a commettere azioni potenzialmente dannose per sé stessi, come avere una sessualità promiscua, giocare considerevoli cifre al gioco d’azzardo e ancora eccessi alimentari e guida spericolata.
Altri elementi osservabili in un soggetto con disturbo borderline sono la rabbia immotivata, un’ideazione paranoide transitoria e correlata allo stress, episodi di dissociazione e sentimenti cronici di vuoto.
Il disturbo istrionico di personalità è caratterizzato da un’intensa emotività esternata attraverso comportamenti teatrali, eccessivi e seduttivi finalizzati ad attirare attenzione, approvazione e sostegno altrui. Il soggetto istrionico vive attraverso la percezione che gli altri hanno di lui e si nutre di complimenti, lodi e approvazione.
Tende a stare al centro dell’attenzione, vivendo con disagio il fatto di non esserlo.
I soggetti affetti dal disturbo istrionico di personalità sono costantemente alla ricerca di novità, eccitazione, subiscono la noia e tendono a drammatizzare ed estremizzare le difficoltà.
La caratteristica principalmente responsabile di molti problemi riguardanti la sfera relazionale dei soggetti affetti da disturbo istrionico è la componente fortemente manipolativa presente in tutti i comportamenti che mettono in atto.
I soggetti istrionici tendono a caricare di intensità le emozioni provate, tuttavia nella realtà l’intensità mostrata non è quella sentita.
Questo comportamento genera negli altri un senso di sfiducia oltre che la sensazione di essere in presenza di finzione e manipolazione, ed esempi concreti di tale dinamica si riscontrano in episodi del tipo:
• drammatizzare le reazioni in ambito sentimentale come sentirsi male durante un litigio al fronte di incutere compassione
• durante una separazione far leva sul senso di colpa dell’altro minacciandolo di suicidarsi
• in ambito lavorativo tendono a sedurre il loro capo e i loro colleghi per risultare indispensabili
• in ambito famigliare cercano di ottenere accudimento e attenzioni in qualsiasi modo
Gli esempi suddetti, sono una piccola parte dei numerosi comportamenti disfunzionali messi in atto dai soggetti istrionici ed in moltissimi casi sono l’espressione e il risultato di dinamiche familiari complesse e insane che possono essere annoverate tra le cause dello sviluppo di tale disturbo: l’accudimento solo quando si è malati, l’essere notati e/o apprezzati principalmente per le doti estetiche, l’interesse e le attenzioni scaturite solo in presenza di capricci e comportamenti manipolativi sono alcuni dei fattori, presenti in una relazione genitori-figlio, ritenuti responsabili o quantomeno che contribuiscono allo sviluppo del disturbo istrionico di personalità in quanto tendono a rinforzare i comportamenti disfunzionali
I sintomi caratterizzanti il disturbo istrionico di personalità sono osservabili attraverso i seguenti tratti comportamentali:
• ricerca costante di approvazione
• ricerca di rassicurazione
• comportamenti esibizionisti
• difficoltà a gestire i cambiamenti
• sensibilità eccessiva alle critiche
• comportamenti seduttivi
• somatizzazione
• impulsività
• influenzabilità (soprattutto da coloro da cui ricevono approvazione)
I criteri diagnostici che stabiliscono la presenza di un disturbo istrionico sono determinati dall’osservazione delle seguenti dinamiche:
• il soggetto risulta eccessivamente seduttivo ed utilizza il proprio corpo per attirare l’attenzione altrui.
• tende a drammatizzare le proprie reazioni alla disapprovazione.
• reagisce in maniera negativa al cambiamento
• i racconti risultano fantasiosi, descrittivi ma privi di dettagli
• nell’esprimere le emozioni risulta esagerato, teatrale e drammatico
• considera le relazioni con un grado di intimità non commisurato alla realtà
• prova disagio quando non è al centro dell’attenzione.
Il disturbo istrionico di personalità si manifesta con un’ampia gamma di comportamenti, primo fra tutti è la ricerca costante di stare al centro dell’attenzione spesso attraverso l’utilizzo di storie divertenti, espressioni esageratamente teatrali, un’ipersocializzazione, e racconti drammatici.
Per il soggetto istrionico quella di catturare l’attenzione è una ricerca costante, e quando non accade prova un profondo senso di disagio in quanto non si sente apprezzato. A questo proposito utilizza spesso comportamenti seduttivi, come fare complimenti, regali e adulare, e nella maggior parte dei casi tale comportamento è supportato anche da un aspetto fisico estremamente curato.
Nelle relazioni spesso recita un ruolo che può essere quello della persona indifesa, malata, piuttosto che forte e brillante conforme al tipo di attenzioni che intende ricevere di volta in volta. La rottura di una relazione, a causa del profondo disagio che i cambiamenti implicano nel soggetto istrionico, è spesso accompagnata da reazioni teatrali e drammatiche come la minaccia di suicidio o la presenza di una malattia.
Una scarsa identità personale è determinata dalla costante ricerca di approvazione: il soggetto istrionico dà più peso alle esperienze che hanno significato per gli altri piuttosto che a quelle che hanno valore per sé, pertanto la personalità è totalmente assoggettata a costanti manipolazioni volte sempre all’approvazione e alla ricerca di attenzioni.
L’influenzabilità e la velocità con cui cambiano umore, opinioni e modi di pensare sono sempre espressioni dello stesso disagio che finiscono per rendere la percezione di ogni cosa superficiale o quantomeno non profonda quanto mostrano.
Il disturbo narcisistico di personalità è caratterizzato dalla tendenza a valutare sé stessi come individui dotati di particolari abilità, doti straordinarie, intelligenza superiore, e dal bisogno di affermare, valorizzare e rinforzare tali caratteristiche.
I soggetti affetti da un disturbo narcisistico mostrano un quadro comportamentale in cui spiccano il bisogno di conferme circa la propria superiorità ed una marcata indignazione in assenza di tali conferme: i narcisisti, essendo convinti di essere in possesso di doti e capacità superiori rispetto agli altri mostrano sconcerto quando tali doti non gli vengono riconosciute, non di rado la manipolazione di soggetti più fragili è volta a garantire questo status illusorio di superiorità.
I soggetti narcisisti, pertanto, tendono a ricercare amicizia e relazioni solo tra coloro che rinforzano e potenziano la stima che essi hanno di sé, e tendenzialmente, chi soddisfa il bisogno di ammirazione e gratificazione viene idealizzato, ma anche fortemente svalutato quando non assolve tale funzione.
La scelta delle persone da frequentare si orienta verso una tipologia di persona prestigiosa, non ordinaria, ricerca guidata dalla considerazione che i propri tratti caratteriali, essendo superiori alla media, non possano essere compresi da persone ordinarie.
I piani e gli obbiettivi del narcisista possono essere orientati alla ricerca di potere e controllo sulle persone e gli ambienti circostanti; la richiesta di ammirazione da parte degli altri non è supportata dalla capacità di provare tale sentimento: generalmente i narcisisti tendono a svalutare gli altri, a non apprezzarli, e questa tendenza riconduce ad una evidente incapacità a provare empatia.
Il “sentire” le emozioni dell’altro risulta quindi una abilità compromessa al punto che possono diventare cronicamente sprezzanti, subdoli e talvolta le intenzioni malevoli hanno l’obbiettivo di mantenere l’immagine di grandiosità e potere personale.
Qualora queste persone sperimentino la perdita irreversibile o l’irraggiungibilità dello status di immagine grandiosa, del potere e della superiorità, è possibile che vivano episodi depressivi, stati acuti di ansia, grande disagio psichico caratterizzato da sensazioni di vuoto e stati angosciosi.
Numerosi studi di settore hanno evidenziato l’importanza delle interazioni genitoriali sull’incidenza dello sviluppo di un disturbo narcisistico di personalità: il bambino bisognoso di cure che non vengono esaudite adeguatamente tenderà a sviluppare una rappresentazione di sé come bisognoso ed una rappresentazione degli altri come incapaci di provvedere a lui.
Questa dinamica genera molto spesso il bisogno di una spiccata autonomia e l’eccessiva autonomia rinforza la convinzione di essere invincibili e di non avere bisogno di nessuno.
L’inadeguatezza delle risposte ai propri bisogni viene percepita come un rifiuto, e la paura di essere rifiutati accresce nel futuro narcisista la tendenza ad organizzare la propria esistenza basandosi unicamente sull’autosufficienza. Il bisogno di aiuto insoddisfatto viene percepito come un elemento non meritevole di cure, per tanto il soggetto narcisista assumerà un atteggiamento distaccato verso tutti quegli elementi, quali la fragilità e i desideri, che riterrà la causa del suddetto rifiuto.
La certezza che scaturisce da questa dinamica è quella di sentirsi meritevoli di attenzioni o più vicini al prossimo solo se le interazioni sono sottoposte ad un serrato controllo. La capacità di esercitare il controllo e di pilotare le azioni/reazioni del prossimo accrescono e rinforzano il senso di grandiosità e di infallibilità collocati alla base del disturbo narcisistico.
L’insieme delle dinamiche familiari che conducono all’insorgenza di un disturbo narcisistico sono le responsabili della compromissione dell’area affettiva del soggetto: in ambito relazionale il soggetto narcisista tenderà a mostrare solo i lati di sé che riterrà meritevoli di attenzioni; in ambito lavorativo tenderà ad offrire performance di scarso rendimento se alla base c’è il rischio di un fallimento; la solidarietà risulterà un veicolo utile a produrre ammirazione.
Il soggetto affetto da disturbo narcisistico di personalità presenta il seguente quadro comportamentale:
• senso grandioso di sé e della propria importanza: conseguente aspettativa di ottenere trattamenti di favore e soddisfazione immediata dei loro bisogni e priorità.
• sistema ideativo fantasioso con ricorrenti immagini di potere, realizzazione, successo illimitato: conseguente senso di discrepanza tra realtà e aspettative.
• richiesta eccessiva e costante di ricevere ammirazione e attenzione
• convinzione di essere speciali: conseguente sensazione di essere compresi solo da persone altrettanto speciali e ricerca di frequentazioni tra persone con un elevato status sociale.
• ostentazione di arroganza e presunzione
• attribuzione di scarsissima importanza alle relazioni affettive e interpersonali: considerazione degli altri come figure accessorie nella propria esistenza
• comportamenti manipolatori volti alla realizzazione dei propri scopi
• persistente sentimento di invidia nonché convinzione di essere invidiato
La diagnosi di disturbo narcisistico di personalità è possibile se ci troviamo in presenza di almeno 5 dei suddetti comportamenti. I tratti narcisisti possono esordire durante la prima età adulta ma non necessariamente trasformarsi in disturbo.
Il disturbo narcisistico di personalità generalmente si esprime attraverso una serie di comportamenti che spesso risultano diametralmente opposti rispetto alle sensazioni percepite: ad esempio il comportamento sprezzante e dominante, l’arroganza e il marcato senso di superiorità sono espressione del sottostante senso di insicurezza e inadeguatezza. Rabbia e vergogna sono generalmente le reazioni alle critiche e freddezza e distacco la modalità di risposta ai bisogni altrui.
La convinzione che la debolezza sia deprecabile e le difficoltà sinonimo di debolezza, conduce i soggetti narcisisti a mostrare disprezzo nei confronti di questi sentimenti sia se riscontrati negli altri, sia se sperimentati per esperienza diretta. Il narcisista vuole ricevere approvazione e nutre la convinzione di meritarla, quando ciò non avviene attua comportamenti che generano negli altri comprensione e senso di protezione.
Gli insuccessi sono percepiti come eventi estranei alla propria capacità di azione, la sensazione dominante in questi casi, è quella di essere vittime di azioni compiute dagli altri nel tentativo di screditarli o sminuirli, o ancora del destino, o della vita.
Il quadro comportamentale tendenzialmente rappresenta un insieme di tentativi che giustifichino il loro senso di superiorità, la loro ipersensibilità nei confronti del giudizio altrui, e una marcata incapacità ad assumersi la responsabilità di ciò che li danneggia.
La consapevolezza dei propri stati interni è compromessa nei soggetti narcisisti: il mancato riconoscimento delle proprie emozioni spinge il narcisista a ricercare negli altri ciò che si aspetta di trovare, ad esempio la tendenza a ricercare compagnia tra individui di alto ceto sociale oltre ad incarnare la convinzione di essere più simili, e quindi rendere più semplice la comprensione, in realtà rappresenta anche il bisogno del narcisista di sentirsi in qualche modo considerato anch’egli dello stesso rango.
Questo atteggiamento è l’esatta rappresentazione dei comportamenti manipolatori che il soggetto narcisista mette in atto per soddisfare i propri bisogni e le proprie necessità.
L’ autostima e l’immagine di sé sono i punti focali del disturbo narcisistico: se l’autostima è bassa e l’immagine di sé negativa il soggetto narcisista vive un profondo senso di inadeguatezza che lo porterà a rifuggire le interazioni sociali fino a condurlo all’ isolamento.
Il disturbo evitante è un disturbo di personalità che induce i soggetti che ne sono affetti a considerare sé stessi come incapaci, di poco valore e meritevoli di giudizi negativi. Centrale è il senso di inadeguatezza che alimenta la costruzione di una personalità caratterizzata dall’ evitamento di interazioni sociali e relazioni sentimentali, in quanto l’aspettativa del soggetto evitante riguardo i suddetti ambiti è fortemente negativa e suscita ansia e angoscia.
Il soggetto evitante è convinto di essere una nullità e di meritare questa classificazione da parte degli altri e per questo evita l’esposizione al giudizio.
Il ritiro sociale scaturito da questa percezione è il risultato di un circolo vizioso che prevede la seguente dinamica: il soggetto evitante vive un costante senso di inadeguatezza che lo porta a scansare le relazioni e le interazioni sociali che possono esporlo a un giudizio; conseguentemente i contesti sociali diventano sempre più complicati da affrontare, divenendo fonte di incomprensione e disagio, ulteriormente alimentati da un’interazione deficitaria.
Pur di sottrarsi al disagio l’individuo evitante sceglie di ritirarsi, rendendo così sempre più difficile la sua condizione, che in questo modo risulta la conferma di tutto ciò che teme.
Le caratteristiche della personalità evitante esordiscono nella tarda adolescenza o nella prima età adulta, e se in parte derivano da fattori biologici e temperamentali innati, l’esposizione ad eventi come abusi fisici, storie di rifiuto da parte dei genitori, confronto sbilanciato con i coetanei, rappresentano fattori di rischio per lo sviluppo di una struttura mentale volta alla ricerca di accettazione e predisposta all’intolleranza verso le critiche.
I soggetti evitanti organizzano la loro vita limitando le interazioni ad un ambiente familiare e protetto; in ambito lavorativo viaggiano su basse frequenze, non mostrano ambizione e scelgono contesti in cui non si espongono, innalzano un sistema di supporto improntato sulla solitudine e vivono con rassegnazione una vita privata di stimoli.
In alcuni casi l’esistenza priva di stimoli e di interazioni al quale si costringe il soggetto evitante genera l’insorgenza di un quadro depressivo.
L’umore depresso costituisce in molti casi la spinta a chiedere un intervento psicologico.
Secondo il DSM – 5, i comportamenti indicatori della presenza di un disturbo evitante di personalità sono i seguenti:
• Tendenza ad evitare contatti interpersonali ed attività che prevedono contatti interpersonali significativi;
• Riluttanza a trovarsi in contesti sociali per paura di ricevere offese, critiche e disapprovazione;
• Esagerazione nel considerare i rischi e i pericoli che possono derivare da azioni che escono fuori dalla routine e dalla consuetudine;
• Reticenza all’interazione con sconosciuti per paura di dire o fare qualcosa di inappropriato, o goffo, o sciocco, di non saper rispondere ad una domanda o di arrossire nel provare imbarazzo;
• Paura di mostrare segni di ansia di fronte ad altri;
• Sensazione di essere inferiore, incapace, non attraente.
Alcune delle condotte di isolamento descritte, possono somigliare superficialmente ad alcuni aspetti comportamentali propri del disturbo antisociale di personalità, tuttavia vanno attentamente distinti da quest’ultimo, in quanto il nucleo psicopatologico di sottofondo è completamente diverso.
Nel disturbo evitante, infatti, i comportamenti di isolamento e di evitamento dei contesti sociali e interpersonali rappresentano tutti indicatori di inibizione sociale, mentre nel soggetto antisociale sono indicatori di sociopatia: nel disturbo antisociale è il disprezzo per gli altri e per le norme sociali il punto cardine che conduce all’isolamento, mentre nel disturbo evitante l’isolamento rappresenta una scelta obbligata per evitare di esporsi al giudizio e mostrare la propria inadeguatezza, a dispetto di un intenso bisogno di una vita affettiva e relazionale.
Il disturbo evitante di personalità si manifesta attraverso l’elevato grado di inibizione che guida le azioni dei soggetti affetti da tale disturbo: sentire il bisogno di una vita relazionale soddisfacente e negarsi la possibilità di averla infonde nei soggetti evitanti un profondo malessere che viene sperimentato come un doloroso senso di esclusione.
Questa condizione, seppur autoinflitta, rende i soggetti evitanti degli inermi spettatori della vita altrui, alla quale essi non riescono a prendere parte a causa del disagio scaturito dalle interazioni sociali, e l’evitamento diventa così un modo per proteggersi.
La ricerca di gratificazione e di alleviamento dal dolore scaturito da tale quadro comportamentale, spesso è diretta verso la scelta di attività solitarie, come ascoltare musica o leggere, attività che non implicano il contatto con gli altri, mentre la ricerca di contatto può essere filtrata da chat, mondi virtuali e giochi di ruolo.
Il disturbo dipendente è un disturbo di personalità che induce coloro che ne sono affetti a ricercare costantemente relazioni, allo scopo di evitare il senso di solitudine e di abbandono provati in caso di assenza e di situazioni di solitudine.
Il soggetto dipendente ha il bisogno di tenere strette a sé delle figure di riferimento, che egli tenderà ad accudire, curare ed accontentare. Questo bisogno è alimentato dalla sensazione di non avere scopi nella propria esistenza se non quello di essere indispensabili per qualcuno: il soggetto dipendente sente di essere incapace, inferiore e inadeguato, e per combattere queste sensazioni si rende prodigo, talvolta sottomesso, e alla ricerca di approvazione.
L’approvazione degli altri, la sensazione di essere indispensabili per qualcuno e la direzione che questo tipo di interazioni contribuiscono ad assumere, rendono le persone con disturbo dipendente appagate; esse si sentono meno sole e smarrite, più utili e sostenute, direzionate e sicure.
La fine di una relazione, di un’amicizia, o comunque l’allontanamento della figura preferenziale e affettivamente investita, provocano nei soggetti dipendenti un forte senso di abbandono e la spasmodica ricerca di un rimpiazzo.
Questa diagnosi deve essere utilizzata con estrema cautela in bambini ed adolescenti, tenendo conto che il comportamento dipendente in questi casi può essere associato appropriatamente alla fase di sviluppo attraversata. In questo senso non è una diagnosi che ben si adatta all’età evolutiva, e che può essere individuata in modo più appropriato e specifico a partire dalla prima età adulta.
In ambiente clinico, questa diagnosi tende ad essere più frequente nelle femmine.
Ci sono pochi studi circa le cause che contribuiscono allo sviluppo del disturbo dipendente di personalità, anche se, assodata la componente innata e di vulnerabilità genetica circa la possibilità di sviluppare un quadro psicologico e comportamentale di tipo dipendente, una componente ambientale è stata riscontrata come alla base dell’insorgenza del disturbo, ed è rintracciabile anche all’interno della relazione di attaccamento con le figure genitoriali.
Molti comportamenti di dipendenza sono associati ad uno stile genitoriale che rinforza le rappresentazioni di sé come vulnerabile, inefficace e bisognoso di cure e i bambini che interiorizzano queste rappresentazioni tenderanno a fare dell’accudimento il fulcro centrale della propria esistenza nonché veicolo delle proprie relazioni.
L’ambivalenza nella somministrazione di cure e accudimento da parte delle figure genitoriali è uno dei fattori implicati nell’insorgenza nel bambino di un sistema di strategia emotiva e comportamentale volto alla ricerca di vicinanza e presenza delle figure da cui dipendono, quale regolatore e organizzatore della propria esperienza.
I soggetti affetti da disturbo dipendente di personalità presentano i seguenti sintomi:
• difficoltà a prendere le decisioni quotidiane senza un’eccessiva quantità di consigli e rassicurazioni da parte degli altri;
• bisogno che altri si assumano la responsabilità per la maggior parte dei settori della sua vita;
• difficoltà ad esprimere disaccordo verso gli altri per timore di perdere supporto o approvazione;
• difficoltà a iniziare progetti o fare cose autonomamente (per mancanza di fiducia nel proprio giudizio o nelle proprie capacità piuttosto che per mancanza di motivazione o di energia);
• giungere a qualsiasi cosa pur di ottenere accudimento e supporto dagli altri, fino al punto di offrirsi per compiti spiacevoli;
• sentirsi a disagio o indifeso/a quando è solo/a a causa dell’esagerato timore di non essere in grado di prendersi cura di sé;
• quando termina una relazione intima, cerca con urgenza un’altra relazione come fonte di accudimento e di supporto;
• si preoccupa in modo non realistico di essere lasciato/a a prendersi cura di sé
Alcuni dei sintomi descritti sono riscontrabili anche in altri disturbi, pertanto è doveroso operare una distinzione:
• la paura dell’abbandono, il senso di vuoto, il senso di inadeguatezza, sono elementi caratteristici anche del disturbo borderline di personalità; tuttavia nei soggetti dipendenti non sono presenti le oscillazioni dell’umore e il caos mentale spesso sperimentato nel disturbo bordeline;
• la percezione di essere incapaci, di non riuscire a sperimentare la solitudine e di non essere in grado di provvedere autonomamente a sé stessi sono gli elementi in comune con il disturbo istrionico di personalità, che tuttavia induce i soggetti che ne sono affetti ad attuare comportamenti spesso teatrali o drammatici per esprimere tali sensazioni al fine di ottenere attenzione, mentre nel soggetto dipendente è il bisogno di accettazione e approvazione da parte degli altri ad essere predominante.
I soggetti dipendenti tendono ad avere livelli di autostima molto bassi, sono molto insicuri, e tendono ad effettuare una valutazione negativa delle proprie capacità e del proprio valore personale: questo li porta a percepire sempre il bisogno di avere un riferimento e ad avere un forte timore di essere abbandonati.
Costruiscono perciò attorno a questa paura un’intricata gamma di comportamenti attui ad evitare l’abbandono: in ambito relazionale tendono ad accontentare il partner o l’amico in tutte le sue decisioni, talvolta fino a sacrificare le proprie aspettative o ad azzerare la propria volontà, nonché i propri personali gusti; imparano presto ad anticipare i desideri e le volontà altrui, diventando particolarmente abili in questa pratica, che, nel tempo, diventa responsabile della propria frustrazione, alimentata oltretutto da una mancata realizzazione dei propri scopi.
Nutrono la convinzione che, se risultano indispensabili per gli altri questi non li abbandoneranno mai; alla lunga, però il tentativo di azzerare i propri bisogni e la propria volontà di compiacere i bisogni altrui, li porta a sperimentare disagio, che molto spesso si traduce in senso di costrizione e rabbia, che può essere espressa in forme disfunzionali e spesso indirette, portando proprio al temuto sfaldarsi del rapporto tanto desiderato e importante per il senso di stabilità e di orientamento del sé.
I soggetti dipendenti hanno desideri, scopi e preferenze propri; però non sono sempre in grado di riconoscerli, specialmente all’interno di una relazione in cui il partner sperimenta necessità, scopi e priorità diverse o potenzialmente in conflitto con quelle percepite dal soggetto. Quindi, può accadere che anche se il soggetto dipendente riconosce i propri desideri, scopi e preferenze, tenda a non perseguirli se non sono approvati e sostenuti dalle figure di riferimento.
Le rare volte in cui sentono sormontare un tentativo di ribellione, quest’ultimo è subito smorzato dalla sensazione che la relazione vacilli, e il focus della loro attenzione si risposta subito sul tentativo di recupero della relazione.
Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità è caratterizzato da un forte senso morale, da una totale adesione alle norme sociali, da un eccessivo perfezionismo e da un’inflessibile tendenza a conformarsi a regole, abitudini e procedure.
Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità viene spesso confuso con il disturbo ossessivo compulsivo, pertanto è doverosa una precisazione: il disturbo ossessivo compulsivo è caratterizzato dal bisogno di compiere azioni rituali e ripetitive per diminuire e gestire l’ansia e l’angoscia provocate dai pensieri ossessivi, e spesso la compulsione e la ritualità dei comportamenti compromettono la vita dei soggetti affetti da questo disturbo, che desiderano liberarsi dai sintomi invalidanti e percepiti come fonte di sofferenza, pur non essendone capaci.
Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità invece è caratterizzato dalla consapevolezza di provare un certo rigore, del bisogno di ordine e di tutta una serie di comportamenti rigidi che vengono, tuttavia, ritenuti funzionali al proprio stile di vita e per tanto il soggetto affetto dal disturbo tenderà a cercare di modificare l’ambiente circostante piuttosto che liberarsi di questi aspetti della sua organizzazione, dato che non ne percepisce la qualità patologica e disfunzionale, né la sofferenza psicologica.
Tipici di questo disturbo di personalità sono i comportamenti moralisti, una certa ansia quando gli standard del perfezionismo a cui si anela non sono adeguatamente soddisfatti, un forte bisogno di ordine e comportamenti che tendono alla routine.
In genere, il Disturbo Ossessivo – Compulsivo di personalità è distinguibile dal Disturbo Ossessivo – Compulsivo, perché solo in quest’ultimo vi è la presenza di reali ossessioni e compulsioni. È possibile che un soggetto presenti entrambi i disturbi e, in questo caso, dovrebbero essere specificati entrambi.
Un altro elemento da considerare nella valutazione differenziale è la presenza di un disturbo da accumulo, da considerare quando i comportamenti da accumulo sono molto frequenti ed estremi. Anche in questo caso, i quadri possono presentarsi insieme e vanno entrambi specificati.
Il Disturbo Ossessivo – Compulsivo è evidente a partire dalla prima età adulta. È uno dei disturbi di personalità maggiormente diffusi nella popolazione generale, con una prevalenza stimata fino al 7,9%.
Viene diagnosticato, nei maschi, con una frequenza doppia rispetto alle femmine.
Come per la stragrande maggioranza dei disturbi psicopatologici, le cause dello sviluppo del disturbo ossessivo compulsivo di personalità vanno ricercate all’interno di un modello bio-psico-sociale, che tenga conto di fattori genetici e temperamentali di vulnerabilità e di fattori ambientali ed esperienziali che rappresentano una condizione di rischio per l’insorgenza.
Da questo punto di vista, una relazione genitoriale in cui vi è stata la presenza di un sistema educativo improntato sulla rigidità, l’attesa di un’esecuzione pedissequa dei compiti assegnati, nonché l’aspettativa immotivata di un grado di maturità innaturale e forzato, può contribuire alla progressiva costituzione di una struttura ansiosa, che guida i comportamenti manifesti specifici di questa patologia, costituendone nel tempo l’organizzazione di base.
Le conseguenze di una struttura del genere sono individuabili in tutti gli ambiti dell’esistenza dei soggetti con disturbo ossessivo compulsivo di personalità:
• in ambito relazionale, la difficoltà ad esprimere le proprie emozioni e la mancanza di spazio da dedicare allo svago inducono l’ossessivo a sperimentare un tipo di relazione piuttosto formale e priva di profondità;
• in ambito lavorativo, l’incapacità di cooperazione, la difficoltà di delega, e i tempi di esecuzione dei compiti, condizionati dalla necessità di seguire degli alti standard di perfezionismo prefissati, sono responsabili, in molti casi, di un approccio inconcludente e fallimentare;
• in ambito affettivo, l’incapacità di gestire, nonché di esprimere, le proprie emozioni, guida il soggetto ossessivo nella creazione di rapporti e relazioni improntate sulla dinamica del controllo.
I comportamenti osservabili ritenuti tipiche manifestazioni della presenza di un disturbo ossessivo compulsivo di personalità sono i seguenti:
• Preoccupato/a per i dettagli, le regole, le liste, l’ordine, l’organizzazione o i programmi, al punto che va perduto lo scopo principale dell’attività;
• Perfezionismo che interferisce con il completamento dei compiti (per esempio, può essere incapace di completare un progetto perché non risultano soddisfatti i suoi standard rigidi);
• Eccessivamente dedito/a al lavoro e alla produttività, fino all’esclusione delle attività di svago e delle amicizie;
• Eccessivamente coscienzioso/a, scrupoloso/a, e intransigente in tema di moralità, etica e valori (in modo non giustificato dall’appartenenza culturale o religiosa);
• Incapace di gettare via oggetti consumati o di nessun valore, anche quando non hanno alcun significato affettivo;
• Riluttante a delegare compiti o a lavorare con altri, a meno che non si uniformino esattamente al suo modo di fare le cose;
• Adotta una modalità di spesa improntata all’avarizia sia per sé che per gli altri; il denaro è visto come qualcosa da accumulare in caso di future catastrofi;
• Manifesta rigidità e testardaggine.
La presenza e la persistenza, a partire dalla prima età adulta, di almeno quattro dei comportamenti suddetti sono gli elementi che consentono una diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo di personalità.
I soggetti ossessivi tendono ad attuare le dinamiche comportamentali descritte in ogni ambito della propria esistenza con ripercussioni negative: l’eccessivo perfezionismo alimenta l’incapacità di delega ed allunga i tempi di esecuzione di qualsiasi compito; la tendenza al giudizio e alla critica ostacola le interazioni sociali; la rigidità, l’inflessibilità e il bisogno di controllo interferiscono sul piano relazionale, lavorativo e sociale.
I soggetti affetti da disturbo ossessivo compulsivo di personalità generalmente considerano i comportamenti tipici del disturbo altamente adattivi: l’inflessibilità e la rigidità che li contraddistingue risultano funzionali per l’osservanza di regole e norme; l’eccessivo perfezionismo, rispondente ad elevatissimi standard, pur interferendo negativamente in moltissimi ambiti della vita del soggetto ossessivo, rappresenta tuttavia una fortissima fonte di appagamento al raggiungimento del risultato.
L’impossibilità di delega nasce proprio dal bisogno di provare quel soddisfacimento personale, scaturito dall’esecuzione di un qualsiasi compito in maniera ligia, precisa e categorica; il comportamento giudicante, controllante e punitivo, seppur risulta invalidante in termini relazionali, tuttavia soddisfa l’elemento formale, ossequioso e distaccato che guida le loro interazioni.
Queste e molte altre manifestazioni, tipiche della struttura intessuta dal disturbo, risultano essere l’espressione dell’emozione maggiormente sperimentata dagli ossessivi: l’ansia.
Differenti tipi di orientamento perseguono l’obiettivo comune della riduzione dei sintomi ansiosi e dei comportamenti invalidanti propri del disturbo ossessivo compulsivo di personalità, e, attraverso differenti trattamenti, agiscono in maniera specifica sul tipo di sintomo da ridurre: gli orientamenti psicodinamici intervengono sulla genesi del disturbo attraverso l’individuazione degli elementi relazionali rimossi, responsabili dei fattori collocati alla base del disturbo; la relazione genitoriale è il focus di studio degli approcci interpersonali; differenti tipi di terapie, come quella di coppia, quella di gruppo e quella familiare, intervengono ognuna sul sintomo che si intende ridurre, che sia esso responsabile di problematiche di natura sessuale, piuttosto che relazionale, o ancora ascrivibile a deficit scaturiti da problematiche insorte all’interno della relazione genitori-figli.
L’intervento di una terapia farmacologica, sempre in azione congiunta con una psicoterapia, è da valutare in presenza di sintomi ansiosi invalidanti.
DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO
Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è un disturbo molto diffuso, si stima infatti la sua presenza in un individuo su 50, colpisce sia uomini che donne e si sviluppa maggiormente intorno alla prima età adulta.
Il DOC è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni.
Per ossessioni si intendono pensieri, impulsi o immagini mentali che si presentano ripetutamente nella mente del soggetto, risultano intrusivi, impossibili da controllare, vengono percepiti come fortemente indesiderati e sono fonte di disagio e causa di ansia.
Le compulsioni invece sono comportamenti o azioni mentali ripetitivi, che il soggetto si sente costretto a mettere in atto in risposta all’ossessione nel tentativo di neutralizzarla, seguendo regole che devono essere applicate rigidamente.
Le manifestazioni legate al DOC (ossessioni e compulsioni), sono differenti da quelle presenti nelle normali preoccupazioni o in alcuni comportamenti ripetitivi presenti in età evolutiva, in quanto sono eccessive e pervasive, e persistono oltre gli appropriati periodi evolutivi.
Le ossessioni e le compulsioni possono essere di varia natura e colpiscono svariati ambiti della vita del soggetto.
Nel 25% dei casi l’esordio del DOC avviene entro i 14 anni di età. L’età media di esordio è la prima età adulta e gli esordi dopo i 35 anni sono rari ma possibili. I maschi hanno un’età di esordio più precoce rispetto alle femmine e presentano in modo più frequente l’associazione con il disturbo da tic. Quasi il 25% dei maschi ha un esordio prima dei 10 anni di età. L’esordio acuto è raro e in genere il disturbo si manifesta in modo graduale.
Il disturbo ossessivo compulsivo, se non curato, tende alla cronicizzazione, e nel tempo risulta invalidante: il soggetto affetto da DOC a causa dei continui rituali, dei check e delle ripetizioni che possono intensificarsi nella durata, tende a trascorrere molto tempo ad espletare le suddette azioni; inoltre i continui evitamenti di luoghi, persone e situazioni ritenuti responsabili di contagi o disastri conducono inevitabilmente all’isolamento e danneggiano il funzionamento sociale dell’individuo, anche perché la quantità di tempo trascorso a compiere i rituali lascia ben poco spazio a qualsiasi altro genere di azione.
Le ossessioni inquinano non solo i pensieri ma anche le interazioni sociali.
Inoltre in ambito lavorativo il problema principale risulta essere quello di svolgere mansioni compatibili con il proprio disturbo.
Nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo le terapie ritenute maggiormente efficaci risultano la terapia farmacologica e la psicoterapia individuale.
Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, molte ricerche documentano l’effetto dei farmaci antidepressivi SSRI (o inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) e della clomipramina (un antidepressivo triciclico). Tuttavia, i farmaci, anche quando efficaci (e talvolta lo sono e sono indispensabili nelle forme gravi), non risolvono i meccanismi centrali all’origine del disturbo e comportano, quindi, un notevole rischio di ricaduta in caso di sospensione del trattamento farmacologico.
Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è caratterizzato da presenza di ossessioni, compulsioni, o entrambi:
Le ossessioni sono definite da:
1. Pensieri, impulsi, o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo, come intrusivi e indesiderati e che causano ansia e disagio marcati;
2. Il soggetto cerca di ignorare o di neutralizzare questi pensieri, impulsi o immagini o di sconfiggerli con altri pensieri e/o azioni (cioè mettendo in atto una compulsione).
Le compulsioni sono definite:
1. Comportamenti ripetitivi (come: lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (come: pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che il soggetto si sente costretto a mettere in atto nel tentativo di gestire l’ossessione e che devono seguire rigide regole di applicazione e di sequenza;
2. I comportamenti o le azioni mentali (rituali mentali) sono finalizzati a prevenire o diminuire l’ansia e il disagio o a scongiurare alcuni eventi temuti; tuttavia, questi comportamenti messi in atto a tale scopo, non sono collegati in modo realistico con quello che sono destinati a neutralizzare o a prevenire, e anche quando può esserci un nesso, sono chiaramente eccessivi.
Nei bambini piccoli con DOC spesso non è ancora sviluppata la capacità di spiegare le ragioni di questi comportamenti o delle azioni mentali.
Le ossessioni e le compulsioni fanno consumare molto tempo al soggetto affetto (più di 1 ora al giorno) e causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo e in altre aree di vita importanti.
I sintomi ossessivo – compulsivi non sono attribuibili agli effetti di una sostanza o ad altra condizione medica.
Il disturbo non è meglio spiegato dai sintomi di un altro disturbo psicopatologico.
I diversi tipi di DOC:
Nel tentativo di arginare la vastità di espressione tipica del disturbo sono state costituite alcune sotto-categorie al fronte di stabilire l’ambito maggiormente colpito dal DOC:
• DOC da contaminazione paura di contrarre malattie, di entrare in contatto con germi e batteri, di sporcarsi: il soggetto evita i luoghi in cui è maggiormente esposto alla contaminazione e qualora entri in contatto con la situazione temuta tenterà di alleviare il disagio provocato mettendo in atto rituali di pulizia.
• DOC da controllo si riferisce al controllo di tutto ciò che può produrre catastrofi e incidenti: il soggetto apporterà ripetuti controlli ad azioni come chiudere il gas, le porte e le finestre, l’interruttore della luce, e cercherà costante conferma di non essere responsabile di un evento negativo, o si chiederà se ha fatto tutto il possibile per evitarlo.
• DOC da ordine e simmetria intolleranza verso tutto ciò che è disordinato o fuori posto: i soggetti tendono ad ordinare ed allineare secondo l’ordine che li soddisfa (in ordine di dimensione, colore, forma) gli oggetti, gli indumenti, i capelli, o tutto ciò che ritengono asimmetrico o disordinato.
• DOC da superstizione legato al timore che determinate azioni, o gesti possano causare l’esito degli eventi: il soggetto prova un’intensa paura in presenza di condizioni o oggetti negativi ed è perseguitato dalla paura che eventi gravi possano accadere a sé stesso e alla sua famiglia. Presenza di rituali volti a neutralizzare gli effetti negativi che un determinato suono, un numero o una parola pronunciata in determinate circostanze possono provocare.
• Ossessioni pure il DOC talvolta presenta ossessioni senza compulsioni, che possono essere di tipo aggressivo, religioso, sessuale o sociale.
Le manifestazioni tipiche del Disturbo Ossessivo Compulsivo variano a seconda dell’ambito maggiormente colpito dal disturbo: nel caso del DOC da contaminazione, ad esempio, il soggetto sente il bisogno di evitare la frequentazione di luoghi o situazioni in cui teme il contagio, e mette a punto una serie di rituali di pulizia e sterilizzazioni che possono durare anche ore, al fronte di neutralizzare gli effetti derivati dal contagio temuto.
Per estensione il DOC da contaminazione non riguarda solo il contatto con sporcizia, escrementi, immondizia o altre sostanze disgustose, ma può riferirsi anche ad un contagio derivante dal contatto con situazioni considerate impure, sgradevoli, o contrarie alla morale di appartenenza, come i peccatori, o ancora il male, il diavolo etc. Per tanto, il soggetto affetto da un DOC di questo tipo farà il possibile per evitare il contatto con il fattore ritenuto contaminante.
Nel caso del DOC da controllo, il soggetto, temendo di provocare catastrofi e sentendo la responsabilità di ciò che avviene come dipendente dal proprio controllo e dal proprio comportamento, attua una serie di comportamenti volti proprio al mantenimento di tale controllo: rubinetti, interruttori, portiera dell’auto, porta di casa, finestre etc. vengono controllati costantemente, e il soggetto, non essendo sicuro di aver controllato bene e di poter causare un danno ad altri a causa della propria irresponsabilità, ripeterà una serie infinite di volte i suoi “check” coinvolgendo spesso i famigliari o gli amici per ottenere conferme e rassicurazioni.
Anche nel caso del DOC da superstizione il controllo sugli eventi ha un ruolo centrale nelle manifestazioni del disturbo, ma riguarda nello specifico il timore di ciò che potrebbe accadere in presenza di un numero, una frase, una parola, un oggetto a cui viene attribuito un potere scaramantico.
I rituali che seguono il contatto con l’oggetto in questione servono a neutralizzare il potere dello stesso.
Le azioni rituali, di controllo, scaramantiche, le ripetizioni, la ricerca dell’ordine, dell’equilibrio, della perfezione, accomunano, seppure attraverso diverse espressioni, i vari tipi di DOC.
Cause del disturbo ossessivo – compulsivo:
Le cause che portano allo sviluppo del DOC sono oggetto di numerosi studi, tuttavia, il disturbo ha un’origine complessa, verosimilmente correlata a più ordini di fattori in interazione fra di loro. Come per tutte le condizioni psicopatologiche è dunque complesso parlare di fattori causali definiti. Possiamo tuttavia individuare alcuni fattori di predisposizione.
Fattori temperamentali: sintomi internalizzanti, emotività negativa e inibizione comportamentale in età infantile sono possibili fattori di rischio.
Fattori ambientali: ambienti fortemente normativi e rigidi rispetto all’importanza del rispetto delle regole, del controllo, della colpa e della morale; abuso fisico e sessuale.
In alcuni bambini si può sviluppare un esordio improvviso, che è stato associato a diversi fattori ambientali, tra cui agenti infettivi e una sindrome autoimmune post – infettiva. Fattori genetici: Il tasso di DOC tra i parenti di I grado degli adulti con DOC è molto alto e la rilevanza di disfunzioni a carico della corteggia orbitofrontale, della corteccia cingolata anteriore e dello striato suggeriscono la presenza di fattori genetici e strutturali rilevanti nell’esordio della sintomatologia.
DISFUNZIONI SESSUALI
L’eiaculazione precoce rientra a far parte nella categoria delle disfunzioni sessuali: per disfunzione sessuale si intende l’insieme di disturbi caratterizzati da un’anomalia riguardante la sfera sessuale, come ad esempio non provare piacere, non avere reazioni sessuali o presentare reazioni abnormi.
Affinché sia diagnosticata una disfunzione sessuale è importante tenere conto di una serie di elementi:
• L’ abuso di farmaci e sostanze
• Un’adeguata stimolazione
• L’influenza di altre patologie (psicologiche o mediche)
• Problematiche di tipo religioso, socio-culturale, relazionale.
• L’eiaculazione precoce può derivare da fattori temperamentali e manifestarsi maggiormente in uomini affetti da fobia sociale o da disturbi d’ansia, o da fattori genetici e fisiologici come l’incidenza di malattie della tiroide o della prostata, tuttavia dal punto di vista emotivo, sociale e culturale il senso di mancanza di controllo avvertito dagli uomini affetti da eiaculazione precoce può essere allo stesso tempo il sintomo e la causa delle future eiaculazioni precoci nei successivi rapporti sessuali.
• La sfera emozionale gioca un ruolo importantissimo non solo nella genesi, ma anche nel mantenimento del disturbo, infatti esperienze sessuali fallimentari, costrutti culturali devianti, svalutazione e disagio riguardo la propria fisicità possono essere annoverati tra quei fattori, che associati a squilibri di tipo medico o psicologico, confermano la diagnosi di disfunzione sessuale.
L’eiaculazione precoce si riferisce ad una mancanza di controllo dell’eiaculazione e più precisamente indica che la durata della propria latenza eiaculatoria, e cioè il tempo che intercorre tra l’inizio dell’attività sessuale e il momento dell’eiaculaizione, è inferiore o uguale ad un minuto.
Questo tipo di disfunzione sessuale si basa sulla durata della latenza eiaculatoria e non si riferisce unicamente alla penetrazione vaginale ma anche ad altre attività sessuali, per tanto può colpire maschi di ogni orientamento sessuale.
La durata della latenza eiaculatoria, affinché si possa parlare di disfunzione, deve essere uguale o inferiore ad un minuto o al tempo soggettivo di norma necessario affinchè vi sia un’eiculazione, e ciò deve verificarsi per un tempo di circa sei mesi e sperimentato nella maggioranza delle azioni sessuali.
L’eiaculazione precoce, come accennato in precedenza, si manifesta durante un’azione sessuale non corrispondente necessariamente alla penetrazione vaginale, bensì anche tra diverse attività sessuali, tuttavia è indispensabile essere a conoscenza di alcune variabili al fronte di poter individuare la causa del problema che si pone alla base di tale disfunzione:
• Il distubo può essere permanente cioè presente da quando l’individuo è di ventato sessualmente attivo, oacquisito e cioè subentrato successivamente ad un’attività sessuale relativamente normale
• Il disturbo può essere generalizzato cioè non limitato a determinati tipi di stimolazione, a determinate situazioni o partner, o al contrario, situazionale e cioè che si verifica solo in determinate situazioni, con determinati partner e a seguito di determinati tipi di stimolazione
• I livelli di gravità del disturbo si differenziano in lieve, l’eiaculazione si manifesta entro 30-60 secondi dall’inizio dell’attività sessuale, moderata, si manifesta entro 15-30 secondi, e grave, può verificarsi all’inizio dell’attività sessuale o entro i primi 15 secondi.
Nel caso delle disfunzioni sessuali è necessario valutare in primo luogo l’incidenza di disturbi di tipo medico sullo sviluppo della disfunzione.
Per garantire un trattamento efficace è necessaria una valutazione medica e psicologica del soggetto. Un’adeguata individuazione del problema che si pone alla base del disturbo, e i seguenti fattori possono essere rilevanti nella valutazione delle disfunzioni sessuali:
• fattori riguardanti il partner: nel caso di un’eiaculazione precoce situazionale bisogna indagare sulle problematiche riguardanti il partner e la sua sfera sessuale
• fattori relazionali: nel caso in cui siano presenti nella relazione problemi di comunicazione o desideri differenti
• fattori di vulnerabilità individuale: è il caso di un’immagine corporea insoddisfacente o della presenza di una storia di abusi sessuali o emotivi
• comorbidità psichiatrica: presenza di disturbi come ansia o depressione
• fattori stressanti: come perdita del lavoro, lutto, difficoltà economiche, preoccupazioni di vario genere
• fattori culturali o religiosi: inibizioni, senso di colpa e tutto ciò che può derivare da un’educazione religiosa di tipo oppressivo o l’osservanza di regole e valori estremamente rigidi.
Una volta individuato il fattore responsabile del disturbo si può procedere alla gestione e alla cura dell’eiaculazione precoce attraverso un percorso psicoterapico che attui una recessione dei sintomi, attraverso un protocollo che punti soprattutto alla ricostruzione di un equilibrio psichico in grado di far fronte al controllo necessario per gestione del disturbo stesso.
In casi di maggiore criticità una terapia farmacologica a base di farmaci anestetizzanti può apportare risvolti positivi nella gestione del sintomo, tuttavia non ne garantiscono la durata.
L’eiaculazione ritardata rientra a far parte nella categoria delle disfunzioni sessuali: per disfunzione sessuale si intende l’insieme di disturbi caratterizzati da un’anomalia riguardante la sfera sessuale, come ad esempio non provare piacere, non avere reazioni sessuali o presentare reazioni abnormi.
Nello specifico l’eiaculazione ritardata si riferisce ad un marcato ritardo nell’eiaculazione o addirittura l’assenza di quest’ultima.
Affinché sia diagnosticata una disfunzione sessuale è importante tenere conto di una serie di elementi:
• L’ abuso di farmaci e sostanze
• Un’adeguata stimolazione
• L’influenza di altre patologie (psicologiche o mediche)
• Problematiche di tipo religioso, socio-culturale, relazionale.
L’eiaculazione ritardata può derivare da fattori temperamentali e manifestarsi maggiormente in uomini affetti da disturbi d’ansia, disturbo depressivo maggiore, o da fattori genetici e fisiologici come l’incidenza del fattore età, responsabile di un deterioramento dei nervi sensoriali periferici e della diminuzione della secrezione di steroidi, e ancora, i risultati di un’analisi differenziale suggeriscono che malattie organiche come lesioni possono produrre ritardi nell’eiaculazione non derivanti da questioni psicologiche, tuttavia dal punto di vista emotivo, sociale e culturale il senso di mancanza avvertito dagli uomini affetti da eiaculazione ritardata può essere allo stesso tempo il sintomo e la causa delle future eiaculazioni ritardate nei successivi rapporti sessuali.
Alcuni uomini arrivano all’evitamento di ogni tipo di attività sessuale dopo aver tentato invano in maniera prolungata di raggiungere un orgasmo fino allo sfinimento e al dolore ai genitali.
In ambito relazionale accade spesso che il partner di un individuo affetto da eiaculazione ritardata riferisca di sentirsi poco attraente a causa della mancata eiaculazione.
La sfera emozionale gioca un ruolo importantissimo non solo nella genesi, ma anche nel mantenimento del disturbo, infatti esperienze sessuali fallimentari, costrutti culturali devianti, svalutazione e disagio riguardo la propria fisicità possono essere annoverati tra quei fattori, che associati a squilibri di tipo medico o psicologico, confermano la diagnosi di disfunzione sessuale.
L’eiaculazione ritardata si riferisce, come abbiamo accennato, a un marcato ritardo, una certa infrequenza o ad un’assenza di eiaculazione, e affinché venga diagnosticata, l’individuo che ne è affetto, deve riferire che il suddetto ritardo/assenza avviene in quasi tutti i rapporti sessuali con un’incidenza del 75/100% e che ciò si verifichi per un lasso di tempo di almeno sei mesi.
Tale sintomatologia genera nel paziente un disagio clinicamente significativo, sia che il disturbo si verifichi con un andamento generalizzato o situazionale.
È importante specificare se il disturbo sia permanente e cioè presente da quando l’individuo è diventato sessualmente attivo, acquisito e cioè che si verifica dopo un periodo ad andamento normale, generalizzato e cioè non limitato a situazioni, stimolazioni o partner specifici, situazionale al contrario si verifica in determinate situazioni, con determinate stimolazioni e partner.
L’importanza di tale differenziazione deriva dalla necessità di individuare o escludere determinate variabili che possono interagire con la genesi del disturbo, come variabili derivanti da condizioni mediche di tipo deficitario o dalla presenza di altri disturbi di ambito psicologico.
L’eiaculazione ritardata, come accennato in precedenza, si manifesta attraverso un marcato ritardo o l’impossibilità totale di raggiungere l’eiaculazione nonostante una stimolazione nonché un desiderio sessuale adeguato.
La definizione di ritardo naturalmente non ha confini precisi per tanto il parametro in questione è tarato su quanto riportato dal soggetto in questione o dal partner sessuale.
Questa sindrome è la meno frequente e la meno comune tra le lamentele sessuali maschili, ma nella maggior parte dei casi essa è associata ad un notevole disagio psicologico in quanto vi sono pochissimi dati riguardo l’eiaculazione ritardata acquisita mentre vi sono diverse testimonianze circa un andamento di tipo permanente con una genesi che si manifesta dal primo rapporto sessuale e che procede per tutta la vita.
Nel caso delle disfunzioni sessuali è necessario valutare in primo luogo l’incidenza di disturbi di tipo medico sullo sviluppo della disfunzione.
Per garantire un trattamento efficace è necessaria una valutazione medica e psicologica del soggetto. Un’adeguata individuazione del problema che si pone alla base del disturbo, e i seguenti fattori possono essere rilevanti nella valutazione delle disfunzioni sessuali:
• fattori riguardanti il partner: nel caso di un’eiaculazione ritardata situazionale bisogna indagare sulle problematiche riguardanti il partner, la sua sfera sessuale e il suo stato di salute
• fattori relazionali: nel caso in cui siano presenti nella relazione problemi di comunicazione o desideri differenti
• fattori di vulnerabilità individuale: è il caso di un’immagine corporea insoddisfacente o della presenza di una storia di abusi sessuali o emotivi
• comorbidità psichiatrica: presenza di disturbi come ansia o depressione
• fattori stressanti: come perdita del lavoro, lutto, difficoltà economiche, preoccupazioni di vario genere
• fattori culturali o religiosi: inibizioni, senso di colpa e tutto ciò che può derivare da un’educazione religiosa di tipo oppressivo o l’osservanza di regole e valori estremamente rigidi.
Una volta individuato il fattore responsabile del disturbo si può procedere alla gestione e alla cura dell’eiaculazione ritardata attraverso un percorso psicoterapico che attui una recessione dei sintomi, attraverso un protocollo che punti soprattutto alla ricostruzione di un equilibrio psichico in grado di far fronte al controllo necessario per gestione del disturbo stesso.
Il disturbo erettile rientra a far parte nella categoria delle disfunzioni sessuali: per disfunzione sessuale si intende l’insieme di disturbi caratterizzati da un’anomalia riguardante la sfera sessuale, come ad esempio non riuscire a provare piacere o non avere reazioni sessuali nonostante la presenza di situazioni stimolanti, o presentare reazioni abnormi.
Il disturbo erettile è caratterizzato dalla difficoltà a ottenere e/o a mantenere l’erezione durante i rapporti sessuali, e affinché si possa parlare di disturbo il problema deve verificarsi per un periodo di tempo di almeno 6 mesi e nella maggior parte delle azioni sessuali.
Affinché sia diagnosticata una disfunzione sessuale è importante tenere conto di una serie di elementi:
• L’abuso di farmaci e sostanze
• Un’adeguata stimolazione
• L’influenza di altre patologie (psicologiche o mediche)
• Problematiche di tipo religioso, socio-culturale, relazionale.
• Si è riscontrato che un insufficienza erettile di tipo episodico è legata ad una serie di condizioni, quali ad esempio un partner sconosciuto, una prima esperienza precoce e non realmente desiderata ma magari indotta dal gruppo di appartenenza, l’abuso di sostanze dannose quali alcool e droghe, e accade spesso che una prima esperienza di questo genere possa determinare un picco d’ansia associata alla situazione sessuale, tale da provocare la ripetizione di episodi di insufficienza erettile futuri.
• Nel caso di insufficienza erettile di tipo acquisito invece è importante indagare sulle origini scandagliando i fattori biologici quali diabete, o malattie cardiovascolari che solitamente sono i responsabili del disturbo.
• L’incidenza del disturbo erettile aumenta con l’età, e con l’età diminuisce il disagio apportato da tale disturbo sull’individuo che ne è affetto, ma questa variabile non è l’unica che modifica il decorso del disturbo, altri fattori di rischio comprendono il tabagismo, la mancanza di esercizio fisico e la riduzione del desiderio sessuale.
• Sul piano emotivo il disturbo erettile provoca una bassa autostima, poca fiducia in sé stessi e una notevole riduzione del senso di mascolinità, e tali condizioni emotive persistendo possono condurre a sentimenti depressivi e all’evitamento di incontri sessuali futuri, tale circolo vizioso può avere una forte incidenza sulla qualità umorale e di vita del soggetto.
Il disturbo erettile è caratterizzato dai seguenti sintomi che si manifestano nel 75-100 % dei rapporti sessuali:
• Difficoltà ad ottenere un’erezione durante l’attività sessuale
• Difficoltà a mantenere l’erezione fino al completamento dell’attività sessuale
• Marcata diminuzione della rigidità erettile
Il disturbo erettile può manifestarsi a causa dell’incidenza di una serie di fattori sia di tipo medico che psicologico, e per poterne distinguere la causa è necessario approfondire la storia sessuale dell’individuo che ne è affetto.
A questo proposito è fondamentale specificare se tale disfunzione è permanente , e cioè presente da quando l’individuo è diventato sessualmente attivo, acquisita , e cioè quando il disturbo inizia dopo un periodo di funzionamento sessuale normale, generalizzata , quando non si limita a determinati tipi di stimolazione, a determinate situazioni o con qualsiasi partner sessuale, situazionale , quando il disturbo si verifica solo con determinati tipi di stimolazione, o con determinati partner e in alcune specifiche situazioni.
Nel caso delle disfunzioni sessuali è necessario valutare in primo luogo l’incidenza di disturbi di tipo medico sullo sviluppo della disfunzione, tra questi il diabete, malattie coronariche, neuropatie, problemi alla tiroide etc., per procedere al trattamento del disturbo con il giusto approccio.
L’individuazione della giusta cura è determinata quindi dalla valutazione medica e psicologica del soggetto.
Durante la valutazione e la diagnosi di disturbo erettile è necessario valutare alcuni fattori:
• Fattori riguardanti il partner come il suo stato di salute e/o la presenza di problematiche legate alla sfera sessuale
• Fattori relazionali come un differente desiderio riguardo l’attività sessuale o una comunicazione di tipo deficitario
• Fattori di vulnerabilità individuale come una storia di abusi sessuali o emotivi oppure una difficile accettazione della propria immagine corporea o ancora presenza di stress o fattori stressanti come un lutto, e ancora la presenza di depressione o ansia
• Fattori culturali o religiosi che possono influenzare negativamente l’attività sessuale imponendo restrizioni o conflitti.
La diagnosi di disfunzione erettile e l’individuazione della sua genesi comprendono quindi la valutazione delle variabili appena descritte in quanto la manifestazione dei sintomi può cambiare in relazione a tali variabili.
Il disturbo dell’orgasmo femminile è caratterizzato da difficoltà nel raggiungere l’orgasmo, e da una marcata riduzione dell’intensità delle sensazioni orgasmiche.
Affinché sia diagnosticata questa disfunzione sessuale è importante considerare i seguenti criteri diagnostici:
• È necessario che sia provato che nella maggior parte dei rapporti sessuali (o almeno in una percentuale che vada dai 75-100%) si verifichi un marcato ritardo, un’ampia infrequenza o anche una totale assenza dell’orgasmo e/o una notevole riduzione dell’intensità delle sensazioni orgasmiche
• È necessario che tale condizioni si verifichi per un tempo di circa sei mesi
• È necessario che non vi sia l’incidenza derivante dall’assunzione di farmaci né tanto meno che vi siano disagi di tipo relazionale o dei disturbi mentali, o ancora fattori significativamente stressanti che possono incidere
Il disturbo dell’orgasmo femminile può derivare da fattori temperamentali che comprendono una vasta gamma di fattori psicologici che sono in grado di interferire con la possibilità di raggiungere l’orgasmo; talvolta emozioni e pensieri intrusivi e\o ricorrenti possono interferire con la situazione sessuale, per esempio la paura di una gravidanza, una scarsa considerazione di sé e del proprio corpo, un senso di vergogna che potrebbe derivare da costrutti religiosi o da fattori culturali, ma anche da fattori ambientali come il disagio derivante da problemi relazionali e la difficoltà di distinguere i differenti ambiti.
Per quanto riguarda i fattori genetici e fisiologic i è determinante indagare circa l’assenza di patologie come la sclerosi multipla, danni ai nervi pelvici a seguito di un’isterectomia, o ancora atrofia vulvo-vaginale che riduce moltissimo le possibilità di raggiungere un orgasmo.
Tutti i suddetti fattori ad ogni modo interagiscono in maniera rilevante sull’esperienza dell’orgasmo.
Generalmente le donne affette da questo disturbo tenderanno a parlarne malvolentieri o a non parlarne affatto, anche se la soddisfazione sessuale nella sua totalità non è strettamente legata al raggiungimento dell’orgasmo, pertanto se da un lato ci sono molte donne che riferiscono di avere una vita sessuale appagante e soddisfacente seppure non abbiano mai raggiunto un orgasmo, dall’altro c’è chi riferisce che spesso la difficoltà sta a monte, e cioè nella capacità di provare stimoli che conducono all’eccitazione sessuale.
Il disturbo dell’orgasmo si riferisce, come abbiamo accennato, a un marcato ritardo, una certa infrequenza o ad un’assenza dell’orgasmo: tuttavia, affinché si possa parlare di disturbo, è importante verificare se le difficoltà orgasmiche siano il risultato di una stimolazione sessuale inadeguata.
Tale sintomatologia genera nella paziente un disagio clinicamente significativo, sia che il disturbo si verifichi con un andamento generalizzato o situazionale.
È importante specificare se il disturbo sia permanente e cioè presente da quando l’individuo è diventato sessualmente attivo, acquisito e cioè che si verifica dopo un periodo ad andamento normale, generalizzato e cioè non limitato a situazioni, stimolazioni o partner specifici, situazionale al contrario si verifica in determinate situazioni, con determinate stimolazioni e partner.
L’importanza di tale differenziazione deriva dalla necessità di individuare o escludere determinate variabili che possono interagire con la genesi del disturbo, come variabili derivanti da condizioni mediche di tipo deficitario o dalla presenza di altri disturbi di ambito psicologico.
Come già accennato in precedenza il disturbo dell’orgasmo femminile si manifesta attraverso una marcata difficoltà a raggiungere l’orgasmo e da una riduzione delle sensazioni orgasmiche.
Molte donne necessitano di una stimolazione del clitoride per il raggiungimento dell’orgasmo e soltanto una piccola percentuale riferisce di provare sempre l’orgasmo durante un rapporto di tipo genitale: ciò indica che le variabili di cui tener conto per l’individuazione del disturbo sono estremamente poche considerando che l’orgasmo femminile non va sempre di pari passo con l’appagamento sessuale e che un’inadeguata stimolazione potrebbe essere sufficiente a giustificare l’assenza dell’orgasmo. La valutazione fornita dalle donne riguardo il raggiungimento dell’orgasmo, il livello di intensità e il numero di orgasmi raggiunti è più alta durante la masturbazione rispetto all’attività sessuale con il partner.
Infatti se una donna riferisce di avere un orgasmo durante una stimolazione del clitoride ma non durante un rapporto di tipo genitale i criteri per la diagnosi del disturbo non sono soddisfatti.
L’assenza dell’orgasmo può rappresentare il sintomo di altre cause contingenti quali ad esempio un disagio relazionale, violenza intima da parte del partner, fattori contestuali o interpersonali e altri fattori stressanti.
L’individuazione della giusta cura per il disturbo dell’orgasmo femminile non può essere scissa da un’adeguata individuazione del problema che si pone alla base del disturbo, e i seguenti fattori possono essere rilevanti nella valutazione delle disfunzioni sessuali:
• fattori riguardanti il partner: bisogna indagare sulle problematiche riguardanti il partner, la sua sfera sessuale e il suo stato di salute
• fattori relazionali: nel caso in cui siano presenti nella relazione problemi di comunicazione o desideri differenti
• fattori di vulnerabilità individuale: è il caso di un’immagine corporea insoddisfacente o della presenza di una storia di abusi sessuali o emotivi
• comorbilità psichiatrica: presenza di disturbi come ansia o depressione
• fattori stressanti: come perdita del lavoro, lutto, difficoltà economiche, preoccupazioni di vario genere
• fattori culturali o religiosi: inibizioni, senso di colpa e tutto ciò che può derivare da un’educazione religiosa di tipo oppressivo o l’osservanza di regole e valori estremamente rigidi.
Una volta individuato il fattore responsabile del disturbo si può procedere alla gestione e alla cura dello stesso attraverso un percorso psicoterapico che attui una recessione dei sintomi, attraverso un protocollo che punti soprattutto alla ricostruzione di un equilibrio psichico in grado di far fronte alla gestione del disturbo stesso.
DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS
Un trauma è un’esperienza di particolare gravità, che tende a compromettere il senso di stabilità, di sicurezza e di continuità sia fisica che psichica di una persona, causando una disorganizzazione e una disregolazione del sistema psicologico e biologico.
Quando si parla di “trauma” si fa riferimento a un evento estremamente stressante, che produce reazioni emotive e corporee così potenti che non sempre il cervello riesce ad elaborare e integrare, generando in questo modo sofferenza, compromissione della vita quotidiana e disturbi psicopatologici associati e secondari.
Quando l’elaborazione di un trauma fallisce, le emozioni associate a quest’ultimo restano bloccate, e tendono a ritornare a galla ogni volta che ci si trova in presenza di uno o più elementi che in qualche modo sono collegati al trauma subìto, causando al soggetto una fortissima sofferenza e spesso interferendo pesantemente con la qualità e il funzionamento nella vita quotidiana.
L’individuo affetto da disturbo da stress post traumatico tende ad evitare in modo persistente i sintomi associati al trauma, i pensieri, i ricordi, i sentimenti, e tutto ciò che può innescare malessere.
I ricordi generalmente non sono chiari e non riguardano un episodio specifico ma solo le sensazioni a esso associate, che nella vita presente si manifestano in vari modi, attraverso attacchi di panico, fobie, ossessioni, ansia, dolori cronici, somatizzazioni, senso costante di insoddisfazione, di agitazione, sensazione costante di sentirsi incompresi, soli e abbandonati.
Questi disagi rappresentano una mancata elaborazione degli episodi traumatici disturbanti, che non trovando risoluzione si riflettono nel presente continuando ad attivarsi attraverso un malessere generale.
Il trauma è una condizione reattiva molto complessa da inquadrare e definire. Di seguito, facciamo riferimento ad alcuni fattori di rischio, implicati nella genesi del disturbo, che vanno tuttavia considerati con cautela e sempre nel complesso equilibrio tra fattori di protezione e fattori di stress.
I fattori pre-traumatici (precedenti al trauma) che comprendono:
• fattori temperamentali: riguardano problemi emotivi legati all’infanzia e precedenti disturbi mentali (come disturbo di panico, depressivo, o ossessivo compulsivo)
• fattori ambientali: comprendono uno stato socio-economico basso, un’istruzione scadente o insufficiente, un’esposizione ad un trauma precedente, uno status razziale/etnico di minoranza, una storia di disturbi psichiatrici in famiglia,
• fattori genetici e fisiologici: determinati genotipi risultano maggiormante inclini di altri a sviluppare il disturbo dopo l’esposizione ad eventi traumatici.
I fattori peritraumatici che riguardano la gravità del trauma in cui l’entità risulta direttamente proporzionale alla possibilità di sviluppare il disturbo.
I fattori post-traumatici che riguardano la capacità di elaborazione dell’evento traumatico che può sfociare in una rappresentazione degli eventi futuri deficitaria, che deriva dai disfunzionali modelli introiettati a causa dell’esperienza negativa e che, in futuro costituiranno il parametro di valutazione di tutti gli altri eventi analoghi.
Le conseguenze più estreme legate a questo disturbo riguardano la possibilità di tentare il suicidio, data anche la forte associazione tra stress post-traumatico, sintomatologia depressiva e ideazione suicidaria.
I criteri diagnostici necessari per individuare la presenza di un disturbo da stress post- traumatico sono i seguenti:
• esposizione a condizioni estreme quali: morte reale, o minaccia di morte, grave lesione o violenza sessuale. L’esposizione può essere diretta, o può consistere nell’assistere direttamente a un evento traumatico successo ad altri, oppure può consistere nel venire a conoscenza di un evento traumatico successo a un familiare o a una persona molto cara; rientra nei criteri diagnostici anche il fare esperienza ripetuta, diretta ed estrema esposizione a dettagli dell’evento;
• Presenza di sintomi intrusivi associati all’evento traumatico (come ricordi o sogni persistenti dell’evento traumatico);
• Reazioni dissociative (come i flashback) in cui il soggetto agisce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando;
• Forte e/o prolungata sofferenza psicologica e/o marcate reazioni fisiologiche rispetto a fattori scatenanti, interni o esterni, che somigliano in qualche modo a qualche aspetto dell’evento traumatico;
• Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico (evitamento del ricordo spiacevole, dei luoghi associati all’evento, degli argomenti che lo riguardano);
• Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico (incapacità di ricordarne i dettagli, convinzioni e aspettative negative riguardo sé stessi, pensieri distorti relativi alla causa o alla conseguenza dell’evento, colpevolizzarsi, persistenza di sentimenti negativi, distacco e allontanamento dagli altri, incapacità persistente di provare emozioni positive);
• Marcate alterazioni della reattività e dell’arousal (attivazione neurovegetativa dell’organismo) associate all’evento traumatico (comportamento irritabile, tendenza alle aggressioni verbali, comportamento spericolato e autodistruttivo, ipervigilanza, eccessive risposte di allarme, problemi di concentrazione, difficoltà e disturbi del sonno).
Nel DSM 5, la classificazione della categoria diagnostica e la descrizione delle caratteristiche psicopatologiche e cliniche del trauma, fanno riferimento all’esposizione, diretta o indiretta, a circostanze estreme (p.e. un gravissimo incidente, essere vittime di un atto di terrorismo).
Oggi, tuttavia, nella letteratura scientifica, nella teoria e nella psicoterapia applicata al lavoro sulle condizioni traumatiche, si considerano “traumatiche” anche condizioni non necessariamente dovute a circostanze estreme, acute, o catastrofiche.
Sono infatti da considerarsi altrettanto dannose e potenzialmente disorganizzanti per l’equilibrio psicofisico, altre condizioni traumatiche, come i cosiddetti disturbi post-traumatici complessi, dovuti alla ripetuta e inevitabile esposizione a traumi psicologici e/o fisici in un contesto relazionale rilevante.
Questo tipo di traumi può essere, in qualche modo, maggiormente assimilabile a esperienze più frequenti, che possono influire in modo molto pesante sul senso di valore personale, sulla sicurezza, sulla consapevolezza, sul senso di amabilità e sull’integrazione psicofisica della persona colpita. Rientrano in questa categoria, per esempio: esperienze ripetute di trascuratezza nell’accudimento, essere stati esposti a rimproveri eccessivi e costanti durante l’infanzia nell’ambito di relazioni invalidanti dal punto di vista emotivo, aver subito violenza verbale o fisica, aver subito un abbandono o essere stati vittime di atti di bullismo.
Anche la fine di una relazione importante o la perdita improvvisa di un lavoro possono rappresentare un fattore di stress potenzialmente traumatico. In questi ultimi casi, è bene considerare anche il contesto in cui avviene il trauma e le risorse della persona che ne viene colpita e che cerca di elaborarlo con più o meno successo.
Spesso, per i traumi in generale e per quelli di tipo relazionale, non si hanno molti ricordi chiari, ma sensazioni o ricordi vaghi che nella vita presente si possono manifestare attraverso malesseri generali apparentemente non connessi al trauma, come per esempio: attacchi di panico, presenza di ossessioni, fobie, disturbi collegati a dolore cronico, oppure malessere psicologico generalizzato e difficile da descrivere o da collegare a eventi o temi precisi.
Tutto questo, spesso, può essere un indizio di mancata o incompleta elaborazione di eventi, che così continuano ad agire nel presente creando un malessere generale e influenzando la vita del soggetto.
Sembra quindi importante comprendere che ciò che definisce un trauma non è necessariamente o soltanto la gravità e/o l’eccezionalità dell’evento, quanto anche la reazione soggettiva all’evento traumatico e quanto questo poi impatta negativamente nella vita di un soggetto.
Il disturbo da stress post-traumatico si manifesta attraverso le suddette alterazioni e per un periodo superiore ad un mese, provocando un disagio clinicamente significativo, con una compromissione del funzionamento in ambito lavorativo, sociale, interpersonale e relazionale. L’interferenza di tali alterazioni, affinché si possa parlare di disturbo, non è attribuibile all’assunzione di farmaci, alcol, o a condizioni mediche specifiche.
La sintomatologia, persistente e ricorrente, può esprimersi anche attraverso la presenza di: depersonalizzazione, un’alterazione psicologica che provoca senso di distacco, la sensazione di essere degli osservatori esterni circa i propri processi mentali e fisici, uno stato di irrealtà; o attraverso la derealizzazione, uno stato che induce a percepire il mondo come una dimensione onirica, irreale, distorta e distante.
L’evento traumatico responsabile della genesi del disturbo post-traumatico può essere ri-vissuto in vari modi: comunemente l’individuo presenta ricordi involontari, ricorrenti e intrusivi, e un sintomo comune è rappresentato da sogni che ripetono l’evento o che rappresentano la tematica contenuta nell’evento.
Talvolta, se la sintomatologia si esprime maggiormente attraverso episodi dissociativi, il soggetto rivive parti del trauma, come se si stesse verificando in quel momento. Le manifestazioni somatiche possono riguardare l’ambito delle percezioni fisiche: un odore, la sensazione di vertigini, un rumore possono avere un forte potere evocativo e rappresentare il fattore scatenante dei sintomi, se in qualche modo, per il soggetto, sono legati al trauma originario.
I sintomi propri del disturbo da stress post traumatico possono presentarsi immediatamente dopo il trauma o tardivamente anche dopo un ampio lasso di tempo, e data la propensione alla cronicità di tale disturbo è indispensabile un intervento tempestivo per il trattamento dei sintomi.
A questo proposito è stato messo a punto un trattamento psicoterapeutico focalizzato sul lavoro sul trauma, che può essere integrato ai vari programmi terapeutici o utilizzato come approccio a sé: tale metodologia è conosciuta con il nome di EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing ) e la sua area di intervento è la desensibilizzazione e la rielaborazione del trauma attraverso una tecnica basata sull’utilizzo dei movimenti oculari.
Una stimolazione precisa e rapida dei movimenti oculari, infatti, favorisce una migliore comunicazione fra le cellule dei due emisferi cerebrali, che si attivano e si connettono fra di loro, favorendo una migliore comunicazione attraverso l’utilizzo di un processo fisiologico innato e legato all’elaborazione dell’informazione.
Durante una seduta EMDR, il paziente, attraverso la stimolazione oculare rielabora l’informazione fino alla completa risoluzione dei sintomi e alla riduzione della loro intensità e della sofferenza connessa.
DISTURBI ALIMENTARI
L’ anoressia nervosa rientra a far parte della categoria dei Disturbi del Comportamento Alimentare, che include al suo interno una serie di disturbi, tra i quali la bulimia nervosa o il disturbo da alimentazione incontrollata. Questa classe di disturbi si riferisce all’alimentazione in generale, alle modalità di assunzione del cibo, ad una percezione distorta di sé e della propria fisicità, al rimuginio circa il peso, le forme e l’immagine corporea.
I DCA generalmente colpiscono soggetti adolescenti o nella prima età adulta, con un’incidenza maggiore nel genere femminile. Per alcuni tipi di disturbi, la sintomatologia può presentarsi in età adulta o dopo eventi di vita significativi (gravidanze, lutti, etc..).
In molti casi i soggetti affetti da DCA sperimentano, nell’arco della persistenza del disturbo, il susseguirsi tra i vari disturbi, non è rara infatti l’alternanza di anoressia e bulimia nervosa.
Gli aspetti caratterizzanti l’anoressia nervosa sono:
• Riduzione rilevante del peso
• Rifiuto del cibo indotto dalla paura di ingrassare
• Alterazione nella percezione della propria immagine, delle dimensioni corporee reali, della valutazione del proprio aspetto e delle proprie forme.
L’anoressia nervosa si distingue in due forme: la prima prevede il digiuno forzato ed un’intensa attività fisica ed è definita Anoressia restrittiva, la seconda invece prevede talvolta delle abbuffate (ingerimento di cibo fuori dal controllo) soprattutto dopo un periodo di forte restrizione, seguite da condotte di eliminazione volte a ripristinare la condizione precedente, ed è definita Anoressia con Abbuffate/Condotte di Eliminazione
In molti casi l’insorgenza dell’anoressia nervosa segue il dimagrimento dovuto ad una dieta, il quale produce un senso di euforia iniziale dovuto all’obbiettivo raggiunto ed al senso di potere e controllo, questo spinge la persona al perseguimento della perdita di peso.
La percezione distorta delle reali dimensioni di alcune parti del corpo propria dei soggetti affetti da DCA contribuisce alla disregolazione del comportamento alimentare che sfocia in una serie di atteggiamenti volti al mantenimento degli standard di magrezza auspicati. Inoltre va considerato che i comportamenti di assunzione di cibo e i comportamenti restrittivi possono essere utilizzati per regolare emozioni costose che il soggetto non riesce a fronteggiare altrimenti.
La combinazione tra bassa autostima, percezione distorta del proprio peso e della propria forma fisica, ipersensibilità al giudizio altrui, bisogno di controllo, tendenza al perfezionismo, sensazioni di inadeguatezza e difficoltà nei rapporti interpersonali, spingono alcuni soggetti a sviluppare una vera e propria ossessione nei confronti del cibo e della forma corporea che si manifesta attraverso una serie di comportamenti:
1. misurazione costante del peso, delle dimensioni di alcune parti del corpo (spesso cosce, glutei, addome e braccia), osservazione allo specchio della propria forma fisica
2. rifiuto di specchiarsi, disgusto per sé stessi, evitamento nel monitoraggio del peso e delle proprie forme
3. espulsione del cibo attraverso il vomito auto indotto o l’uso di lassativi
Sebbene non sia facile individuare una causa scatenante univoca nell’insorgenza dei DCA, tuttavia è possibile riscontrare dei fattori di rischio (es: obesità personale o familiare, critiche sulle forme fisiche, familiari a dieta, enfatizzazione della magrezza, presenza di DCA in famiglia, circuiti familiari declinati su temi di giudizio e perfezionismo) che, uniti ad una certa predisposizione biologica spingono maggiormente all’insorgenza del disturbo.
L’anoressia nervosa provoca delle problematiche di ambito medico molto rilevanti, e talvolta irreversibili: tra queste sono osservabili complicazioni cardiovascolari, gastrointestinali, ematologiche ed endocrine.
Nel trattamento di questi disturbi è fondamentale tener conto delle ricadute anche a distanza di tempo dalla fine della terapia, pertanto vanno stabiliti dei colloqui di follow – up necessari a monitorare l’andamento ed il benessere psico-fisico della persona.
I criteri diagnostici attui ad individuare la presenza di anoressia nervosa sono i seguenti:
• restrizione nell’assunzione di calorie che provoca una significativa perdita di peso che si presenta pertanto inferiore al minimo stabilito dall’indice di massa corporea oltre che relativamente all’età e allo sviluppo
• intensa paura dell’aumento di peso nonostante sia significativamente basso
• alterazione della percezione del proprio corpo, del proprio peso e delle proprie forme, rilevante ed eccessiva influenza della questione peso e forma fisica sui livelli di autostima
• visione distorta riguardo la gravità conseguenziale all’essere sottopeso.
Il livello di gravità raggiunto dalla perdita di peso viene valutato attraverso l’indice di massa corporea o body mass index (BMI), che si calcola dividendo il peso (in chilogrammi) per il quadrato dell’altezza (in metri):
• Lieve (poco inferiore al normo-peso): BMI 17
• Moderato: 16-16,99
• Grave: 15-15,99
• Estremo: 15
Uno dei criteri diagnostici presenti nelle precedenti edizioni del DSM ed abolito nella recente 5a edizione è l’amenorrea (assenza di mestruazioni), tale modifica vede tra le motivazioni sia la non applicabilità del criterio agli uomini, alle donne in menopausa o in età pre-menarcale, sia perché in alcuni casi di anoressia l’amenorrea non si presenta come sintomo.
L’anoressia nervosa si manifesta attraverso due tipologie:
• Con restrizioni: la perdita di peso è ottenuta attraverso la dieta, il digiuno, un’eccessiva attività fisica e una quasi totale assunzione di calorie, di nutrimento.
• Con abbuffate e eliminazione: abbuffate episodiche con conseguenti azioni di eliminazione attraverso l’utilizzo inappropriato di lassativi, diuretici o vomito autoindotto.
Le due tipologie sono spesso l’una la conseguenza dell’altra: dopo lunghe restrizioni in cui la persona con anoressia nervosa ha avuto la sensazione di avere un totale controllo su di sé, un qualsiasi elemento che altera il precario equilibrio costituito dal controllo genera la totale perdita dello stesso. L’alternarsi di queste fasi è una conseguenza prevedibile nonché soggettiva, in quanto l’entità delle abbuffate può essere determinata tanto dalla quantità di cibo assunta quanto dalla sensazione di perdita di controllo.
Il comportamento derivante dalla restrizione può essere piuttosto variegato: in alcuni casi il soggetto affetto da anoressia nervosa manifesta la sua ossessione cucinando per la famiglia, leggendo libri di cucina, manuali circa l’assunzione delle calorie e parlando continuamente di alimenti, e può sviluppare comportamenti rituali riguardo l’assunzione (minima) di cibo, come contare le calorie o sminuzzare tutto ciò che ingurgita.
Nel caso delle abbuffate invece il comportamento di compensazione che ne consegue può essere indipendente dalle quantità ingerite, poiché il senso di colpa derivante dalla perdita di controllo induce a procedere all’eliminazione di quanto ingerito e al recupero del controllo. Comune denominatore rimane sempre e costante il pensiero fisso circa il peso e la forma corporea.
I Disturbi del Comportamento Alimentare in generale e l’Anoressia nervosa in particolare, si avvalgono di una serie di trattamenti che si focalizzano su aspetti specifici del disturbo, generalmente si rende necessario il seguimento psicoterapeutico, medico-nutrizionale e talvolta psichiatrico, è utile che questi professionisti cooperino insieme al progetto terapeutico.
Il trattamento psicoterapeutico interviene sul disturbo attraverso un percorso che prevede colloqui di valutazione diagnostica e da qui la definizione del piano di intervento, che può variare a partire dalla gravità e dalla cronicità del caso specifico.
Non di rado si propone una consultazione ai familiari del paziente, talvolta si può prevedere il ricovero ospedaliero, quando i livelli di denutrizione si avvicinano a soglie pericolose per la salute; si procede con consultazioni psicologiche ai familiari, nonché sostegno agli stessi in caso di ospedalizzazione, collaborazione con esperti del settore della nutrizione al fronte di una ridefinizione delle abitudini nutrizionali scorrette. Inoltre può essere di grande supporto anche la psicoterapia di gruppo nel trattamento del disturbo.
La terapia farmacologica può rivelarsi necessaria quando l’anoressia nervosa è associata ad altri disturbi quali ad esempio il Disturbo Depressivo Maggiore, la Fobia Sociale o il Disturbo Ossessivo Compulsivo.
La bulimia nervosa insieme all’anoressia nervosa e al disturbo da alimentazione incontrollata rientrano a far parte della categoria dei Disturbi del Comportamento Alimentare o DCA.
Per DCA si intende l’insieme di disturbi che si manifestano attraverso un andamento atipico riguardo l’alimentazione ma che tuttavia celano profonde problematiche riguardo la percezione di sé, l’autostima e il valore che l’aspetto fisico può avere nella valutazione di sé stessi.
I DCA generalmente colpiscono soggetti adolescenti o nella prima età adulta, con un’incidenza maggiore nel genere femminile. Per alcuni tipi di disturbi, la sintomatologia può presentarsi in età adulta o dopo eventi di vita significativi (gravidanze, lutti, etc..).
In molti casi i soggetti affetti da DCA sperimentano, nell’arco della persistenza del disturbo, il susseguirsi tra i vari disturbi, non è rara infatti l’alternanza di anoressia e bulimia nervosa.
Gli aspetti caratterizzanti la bulimia nervosa sono:
• iperfagia (abbuffate ricorrenti, dove per abbuffata si intende l’assunzione di una quantità di cibo esagerata se messa in relazione alla quantità di tempo che occorre per consumarla)
• azioni riparatorie di compensazione
• alterazione nella percezione della propria immagine, delle dimensioni corporee reali, della valutazione del proprio aspetto e delle proprie forme
La bulimia nervosa nervosa si distingue in due forme:
1. la prima prevede abbuffate con conseguenti condotte di eliminazione attraverso il vomito autoindotto o l’assunzione di lassativi e diuretici
2. la seconda prevede condotte di eliminazione attraverso comportamenti compensatori inappropriati, quali il digiuno o l’esercizio fisico eccessivo, ma non si dedica regolarmente al vomito autoindotto o all’uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi.
Le cause responsabili dell’insorgenza della bulimia nervosa e di un qualsiasi DCA derivano dalla compresenza di fattori ambientali, esposizione a fattori di rischio ed una componente biologicamente determinata.
La crescita in un ambiente in cui si dà molta rilevanza all’aspetto fisico, o in cui si vive a stretto contatto con condizioni in cui il peso può rappresentare un problema e per tanto è posto costantemente sotto controllo (es. scuole di danza, palestre, mondo della moda) sicuramente influiscono sull’insorgenza del disturbo, e fattori di rischio come l’obesità infantile, un familiare affetto da obesità, esperienze negative legate al peso e critiche riguardanti la forma fisica aumentano le probabilità di sviluppare un DCA.
Una bassa autostima, la mancanza di fiducia in sé stessi, una tendenza al perfezionismo con comportamenti ossessivi e impulsivi ed una scarsa consapevolezza delle proprie emozioni rappresentano la struttura ideale sulla quale un DCA può attecchire, ed inoltre tale struttura è ampiamente rinforzata dal disturbo.
Il rinforzo e il mantenimento di questa struttura psicologica che influisce negativamente sull’umore provocando sentimenti di tristezza, stati depressivi e aumento del senso di colpa è uno dei risvolti del DCA, e ripercussioni altrettanto gravi e talvolta irreversibili si evidenziano in ambito medico: erosione dentale, problemi gastro-intestinali, complicanze renali, aritmie e sbalzi ormonali sono il risultato delle azioni eliminatorie e di un’alimentazione smodata.
I criteri diagnostici attui ad individuare la presenza di bulimia nervosa sono i seguenti:
• ricorrenti episodi di abbuffate e perdita di controllo (sensazione di non riuscire a smettere di mangiare)
• intensa paura dell’aumento di peso e ricorrenza a condotte di eliminazione
• alterazione della percezione del proprio corpo, del proprio peso e delle proprie forme, rilevante ed eccessiva influenza della questione peso e forma fisica sui livelli di autostima e percezione di sé
Il criterio più attendibile per stabilire lo stadio di gravità della bulimia è dato dalla frequenza delle condotte compensatorie:
• Lieve: Una media di 1-3 episodi di condotte compensatorie inappropriate per settimana.
• Moderato: Una media di 4-7 episodi di condotte compensatorie inappropriate per settimana.
• Grave: Una media di 8-13 episodi di condotte compensatorie inappropriate per settimana.
• Estremo: Una media di 14 o più episodi di condotte compensatorie inappropriate per settimana.
La caratteristica principale della bulimia nervosa è determinata dalle abbuffate: l’assunzione smodata di cibo, in cui è presente una rilevante perdita di controllo, genera nel soggetto affetto da bulimia un forte senso di colpa spesso abbinato a grande vergogna per quanto ingurgitato, e da disgusto per le proprie azioni. Questo stato di cose induce i soggetti bulimici a procedere con le abbuffate in solitudine e il senso di colpa che ne consegue li spinge a compiere azioni compensatorie come vomitare o assumere lassativi.
Il comune denominatore dei DCA è l’ossessione per la forma fisica, il peso e il proprio aspetto, elementi sui quali poggia la loro autostima, e seppure nei bulimici la smodata assunzione di cibo sembrerebbe dimostrare il contrario, le azioni di compensazione fanno sì che essi riescano a controllare le oscillazioni del peso. Il peso nei soggetti bulimici può subire vaste oscillazioni, passando dall’essere sottopeso, a normopeso o in sovrappeso, a differenza dell’anoressia nervosa che si esprime attraverso un’ingente perdita di peso.
Alcune manifestazioni tipiche della bulimia nervosa sono presenti anche in altri disturbi: l’iperfagia (tendenza a mangiare grandi quantitativi di cibo) è presente, ad esempio, anche nel disturbo depressivo maggiore con manifestazioni atipiche e nel disturbo borderline di personalità, ma mancano le condotte di eliminazione e l’ossessione per il peso e le forme corporee.
A partire dalla valutazione della gravità clinica, la cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare può prevedere laddove necessario, una serie di interventi che si focalizzano su aspetti specifici del disturbo, generalmente si rende necessario il seguimento psicoterapeutico, medico-nutrizionale e talvolta psichiatrico, è utile che questi professionisti cooperino insieme al progetto terapeutico.
Il trattamento psicoterapeutico della bulimia nervosa interviene sul disturbo attraverso un percorso che prevede colloqui di valutazione diagnostica, definizione del piano di intervento, collaborazione con esperti del settore della nutrizione al fronte di una ridefinizione delle abitudini nutrizionali scorrette. Inoltre può essere di grande supporto anche la psicoterapia di gruppo nel trattamento del disturbo.
Il disturbo da alimentazione incontrollata o binge eating disorder (BED), insieme alla bulimia nervosa e all’anoressia nervosa, rientra a far parte della categoria dei Disturbi del Comportamento Alimentare o DCA.
Per DCA si intende l’insieme di disturbi che si manifestano attraverso un andamento atipico riguardo l’alimentazione, ma che tuttavia celano profonde problematiche riguardo la percezione di sé, l’autostima e il valore che l’aspetto fisico può avere nella valutazione di sé stessi.
I DCA generalmente colpiscono soggetti adolescenti o nella prima età adulta, con un’incidenza maggiore nel genere femminile (il rapporto è di 1 a 9).
Nel caso specifico del disturbo da alimentazione incontrollata l’esordio avviene nella maggior parte dei casi durante la prima età adulta e la sintomatologia può presentarsi dopo eventi di vita significativi (gravidanze, lutti, etc..).
Nei soggetti con DCA è frequente la manifestazione di aspetti sintomatologici e comportamentali presenti anche in altri disturbi alimentari. Non è rara infatti l’alternanza di anoressia e bulimia nervosa.
Gli aspetti caratterizzanti il disturbo da alimentazione incontrollata sono:
• iperfagia (abbuffate ricorrenti, dove per abbuffata si intende l’assunzione di una quantità di cibo esagerata se messa in relazione alla quantità di tempo che occorre per consumarla);
• eccesso di assunzione di cibo anche al di fuori delle abbuffate;
• alterazione nella percezione della propria immagine, delle dimensioni corporee reali, della valutazione del proprio aspetto e delle proprie forme;
• obesità o sovrappeso;
Il BED, al contrario dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa non prevede condotte di eliminazione attraverso il vomito autoindotto o l’assunzione di lassativi e diuretici.
Le cause responsabili dell’insorgenza del disturbo da alimentazione incontrollata e di un qualsiasi DCA derivano dalla compresenza di fattori ambientali, esposizione a fattori di rischio ed una componente biologicamente determinata.
La crescita in un ambiente in cui si dà molta rilevanza all’aspetto fisico, o in cui si vive a stretto contatto con condizioni in cui il peso può rappresentare un problema e per tanto è posto costantemente sotto controllo (es. scuole di danza, palestre, mondo della moda) possono influire sull’insorgenza del disturbo, e fattori di rischio come l’obesità infantile, un familiare affetto da obesità, esperienze negative legate al peso e critiche riguardanti la forma fisica aumentano le probabilità di sviluppare un DCA.
Una bassa autostima, la mancanza di fiducia in sé stessi, una tendenza al perfezionismo con comportamenti ossessivi e impulsivi ed una scarsa consapevolezza delle proprie emozioni rappresentano fattori di vulnerabilità personale sui quali un DCA può attecchire e che tendono a rinforzare i comportamenti legati al disturbo.
Il rinforzo e il mantenimento di questa struttura psicologica che influisce negativamente sull’umore provocando sentimenti di tristezza, stati depressivi e aumento del senso di colpa è uno dei risvolti del DCA, e ripercussioni altrettanto gravi e talvolta irreversibili si evidenziano in ambito medico: nel caso del BED, complicazioni mediche come il diabete, le apnee notturne, alcuni tipi di cancro, l’ipertensione arteriosa, insieme ad una ridotta aspettativa di vita, sono subordinate al grado di obesità raggiunto.
I criteri diagnostici necessari per individuare la presenza di BED sono i seguenti:
• ricorrenti episodi di abbuffate e perdita di controllo (sensazione di non riuscire a smettere di mangiare);
• assunzione costante di cibo nell’arco di una giornata anche in assenza di abbuffate;
• assenza di condotte di eliminazione che sfocia lentamente in vari gradi di obesità;
• presenza di senso di vergogna e di colpa come negli altri DCA;
Alle abbuffate si associano i seguenti aspetti:
• mangiare in tempi molto più rapidi del normale;
• mangiare anche senza avere appetito;
• mangiare fino a sentirsi estremamente quanto spiacevolmente sazi;
• mangiare quasi sempre in solitudine a causa della vergogna scaturita da questo tipo di alimentazione;
La quantità di abbuffate presenti nell’arco di una settimana definiscono i livelli di gravità del BED:
• Lieve: Da 1 a 3 episodi di abbuffata a settimana.
• Moderato: Da 4 a 7 episodi di abbuffata a settimana.
• Grave: Da 8 a 13 episodi di abbuffata a settimana.
• Estremo: 14 o più episodi di abbuffata a settimana
La caratteristica principale del BED, così come nella bulimia nervosa, è determinata dalle abbuffate: l’assunzione smodata di cibo, in cui è presente una rilevante perdita di controllo, genera nel soggetto un forte senso di vergogna per quanto ingurgitato e di disgusto per le proprie azioni.
Il comune denominatore dei DCA è l’ossessione per la forma fisica, il peso e il proprio aspetto, elementi sui quali poggia la loro autostima. Nel disturbo da alimentazione incontrollata questo aspetto è esplicitato dal forte senso di vergogna e dalla preoccupazione che i soggetti che ne sono affetti provano, sia per la forma fisica che per il fatto di non essere in grado di mantenere il controllo.
La vergogna per il proprio stile alimentare, per la propria condizione fisica, e per la mancanza di controllo, è spesso causa di sintomi depressivi, tristezza e chiusura che possono sfociare nell’isolamento sociale.
A partire dalla valutazione della gravità clinica, la cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare può prevedere laddove necessario, una serie di interventi che si focalizzano su aspetti specifici del disturbo, generalmente si rende necessario il seguimento psicoterapeutico, medico-nutrizionale e talvolta psichiatrico, è utile che questi professionisti cooperino insieme al progetto terapeutico.
Il trattamento psicoterapeutico interviene sul disturbo attraverso un percorso che prevede colloqui di valutazione psicodiagnostica, definizione del piano di intervento, collaborazione con esperti del settore della nutrizione per una ridefinizione delle abitudini nutrizionali scorrette e consultazione con i familiari del paziente. Inoltre, in alcune fasi, può essere di grande supporto la psicoterapia di gruppo nel trattamento del disturbo.
L’aspetto più importante sul quale intervenire è sulla considerazione che i DCA hanno nel valutare sé stessi attraverso l’aspetto fisico, il peso e le forme corporee.
La terapia farmacologica, quando necessaria, si basa in genere sull’utilizzo di farmaci anti-depressivi e può rivelarsi indispensabile nella gestione delle abbuffate e degli aspetti relativi all’umore correlati al problema.
DISTURBI DEL SONNO
L’insonnia è il più diffuso disturbo del sonno e si riferisce ad una difficoltà a dormire anche quando fisiologicamente se ne sente il bisogno. L’alterazione del ciclo sonno -veglia genera la mancanza di sonno, e tale alterazione può essere causata da molteplici fattori:
• alterazioni in ambito medico: neurologiche (cefalea, parkinson, ictus) cardiovascolari (angina, aritmia) polmonari (enfisema, asma) digestive (ulcere, reflusso) endocrine (iper/ipo tiroidismo, diabete)
• assunzione di sostanze: il consumo di alcool o di sostanze eccitanti
• alimentazione scorretta: l’assunzione frequente di caffeina e di alimenti che la contengono, mangiare troppo o troppo poco prima di coricarsi, cibarsi di alimenti particolarmente indigesti in orari serali
• alterazioni di tipo psicologico: disturbi d’ansia e dell’umore
• stile di vita: abitudini di compensazione come dormire di pomeriggio, utilizzare oggetti tecnologici a letto, compiere attività troppo stimolanti
L’ insonnia si distingue in due tipi:
• Occasionale: episodica, si manifesta in corrispondenza ad eventi stressanti e ha breve durata
• Situazionale: può verificarsi anche in assenza di eventi che la scatenano e tende a cronicizzarsi, la durata in questo caso è di almeno un mese.
L’insonnia è responsabile di un’alterazione del ciclo del sonno: i soggetti insonni, cercando di recuperare le ore di sonno perse, dormono durante le ore pomeridiane o serali, e questo fa sì che durante le ore in cui di norma dovrebbero dormire sono vigili.
Questa modalità va ad aggravare l’insonnia che, talvolta, arrivata ad un certo limite, diventa vera e propria privazione del sonno.
La privazione del sonno genera un’ampia gamma di problematiche fisiche oltre che mentali.
I criteri diagnostici attui ad individuare la presenza di insonnia slegata da altri disturbi sono i seguenti:
• Percezione del proprio sonno come di scarsa qualità, inadeguato e insufficiente
• Ansia e preoccupazione per il sonno
• Risvegli precoci e frequenti
• Difficoltà ad iniziare il sonno
• Difficoltà a mantenere il sonno.
L’insonnia provoca una serie di disagi diurni tra cui affaticamento, stanchezza, difficoltà di concentrazione e a mantenere l’attenzione, basso rendimento, scarse performance, irritabilità e ancora spossatezza, tensione, riduzione della motivazione e tendenza a commettere errori.
Tra tutti i sintomi su citati il responsabile del mantenimento e del rinforzo di questo diffuso disturbo del sonno è la Preoccupazione per il sonno.
L’impossibilità a dormire, i disagi che derivano, il conto alla rovescia che parte non appena il soggetto insonne tenta di addormentarsi, generano ansia e preoccupazione di non riuscirvi, a sua volta quest’ansia conferma tale impossibilità rendendo difficilissimo l’intento, generando un circolo vizioso che è allo stesso tempo sintomo e causa del disturbo stesso.
L’insonnia si manifesta attraverso un sonno breve, quantitativamente e qualitativamente scadente, intermittente, non riposante e inquinato da pensieri o preoccupazioni, e, come già descritto in precedenza, rappresenta un fondamentale indicatore di problemi di ordine medico oltre che psicologico.
Considerata quindi la vastità di cause sottostanti all’insonnia è fondamentale che la diagnosi venga effettuata primariamente per l’identificazione della durata che permette di stabilire se ci troviamo al cospetto di un’insonnia situazionale o occasionale.
La diagnosi di insonnia generalmente avviene oltre che con l’osservazione, grazie all’utilizzo di tecniche strumentali come la polisonnografia notturna, un metodo diagnostico che permette di monitorare mentre il paziente dorme, attraverso una particolare strumentazione che rileva e registra, alcuni parametri fisiologici fondamentali, come l’attività cerebrale, la respirazione, i livelli di ossigeno.
Attualmente non è stato messo a punto un trattamento che sia in gradi di rendere remissivi i sintomi delle insonnie, tuttavia esistono una serie di accorgimenti comportamentali che talvolta associati anche ad un trattamento farmacologico riescono a controllarne gli effetti.
Il trattamento farmacologico non supportato da un percorso psicoterapeutico non determina una evidente remissione dei sintomi.
L’ipersonnia si riferisce a quei disturbi del sonno che si manifestano attraverso un’eccessiva sonnolenza diurna.
I soggetti affetti da ipersonnia non riescono a mantenere uno stato di vigilanza continuo per tutto il giorno, anzi, possono verificarsi situazioni di sonno improvviso da cui non riescono a sottrarsi, come ad esempio durante una conversazione, o durante i pasti, o in situazioni che prevedono scarso dinamismo, e purtroppo, ciò può accadere anche alla guida.
Per poter intervenire adeguatamente e con l’approccio terapeutico giusto è fondamentale individuare il tipo di ipersonnia da cui si è affetti. Le ipersonnie si suddividono in primarie e secondarie:
• Ipersonnie primarie : rientrano in questa categoria la narcolessia caratterizzata da sonnolenza diurna eccessiva, che talvolta presenta cataplessia (perdita del tono muscolare), allucinazioni ipnagogiche (allucinazioni di breve durata presenti durante il passaggio tra veglia e sonno) e paralisi del sonno (impossibilità a muoversi per un breve lasso di tempo in concomitanza della fase dell’addormentamento o del risveglio); ipersonnia ideopatica (caratterizzata da un sonno notturno quantitativamente e qualitativamente ristoratore che nonostante ciò presenta un’eccessiva sonnolenza diurna con necessità di sonnellini diurni di lunga durata e non ristoratori); ipersonnia-bulimia Sindrome di Kleine- Levin (condizione molto rara con attacchi di iperfagia seguiti da insonnia).
• Ipersonnie secondarie: sono subordinate ad altre cause, possono presentarsi ad esempio in seguito all’assunzione di alcuni farmaci, da problemi di respirazione durante il sonno (apnee notturne), da tumori cerebrali, meningite o abuso di sostanze.
La sintomatologia sia negli adulti che nei bambini porta ad una riduzione dell’autostima e ad un’insicurezza provocati dalla paura di addormentarsi in pubblico, che a lungo andare può generare isolamento e chiusura sociale.
La possibilità al quale si va incontro è quella di sviluppare come conseguenza alle ipersonnie una serie di disturbi che potrebbero interessare l’umore e il comportamento.
Formulare una diagnosi di ipersonnia è piuttosto complesso in quanto è necessario escludere tutte le altre possibili cause di sonnolenza associate ad altri disturbi. L’ipersonnia colpisce, nelle sue varie manifestazioni, il 5% della popolazione, con un’incidenza d’esordio tra i 15 e i 25 anni nella maggior parte dei casi, ed è caratterizzata dai seguenti sintomi:
• eccessiva sonnolenza diurna
• assopimento diurno involontario
• sonno non ristoratore
• fatica ad alzarsi al mattino
• irritazione (per quanto riguarda l’umore)
• allucinazioni
• perdita di memoria
• ansia
• disorientamento
• affaticamento (sia fisico sia mentale)
L’ipersonnia si manifesta attraverso una sonnolenza eccessiva, che si presenta attraverso una prolungata durata del sonno notturno (può durare anche oltre le 10 ore) ed un’ulteriore sonnolenza diurna corredata da sonnellini involontari.
Molto spesso viene associata ad altri fattori quali ad esempio pigrizia, o disturbi del comportamento, per tanto la diagnosi in questi casi arriva in ritardo, quando gli episodi di addormentamenti diurni diventano frequenti e imprescindibili da qualsiasi altro disturbo.
L’ipersonnia è frequente anche durante l’infanzia, ma si presenta in modo molto diverso nei bambini rispetto agli adulti, attraverso i seguenti sintomi:
• irritabilità, problemi attentivi, aggressività, difficoltà nell’apprendimento, distraibilità, iperattività, attacchi di sonno improvvisi e frequenti, mancanza di concentrazione, rallentamento nel linguaggio e rallentamento nello sviluppo.
La diagnosi di ipersonnia generalmente avviene grazie all’utilizzo di tecniche strumentali come la polisonnografia notturna, un metodo diagnostico che permette di monitorare mentre il paziente dorme, attraverso una particolare strumentazione che rileva e registra, alcuni parametri fisiologici fondamentali, come l’attività cerebrale, la respirazione, i livelli di ossigeno.
Attualmente non è stato messo a punto un trattamento che sia in gradi di rendere remissivi i sintomi delle ipersonnie, tuttavia esistono una serie di accorgimenti comportamentali che talvolta associati anche ad un trattamento farmacologico riescono a controllarne gli effetti.
Il trattamento farmacologico non supportato da un percorso psicoterapeutico non determina una evidente remissione dei sintomi.
La narcolessia è considerata un disturbo neurologico, non psichiatrico, caratterizzato da eccessiva sonnolenza diurna.
Il motivo per cui questa malattia è inserita nel DSM 5, all’interno della categoria dei “Disturbi sonno – veglia” è perché anch’essa, come gli altri disturbi del sonno, alterando uno dei nostri processi fisiologici fondamentali, causa insoddisfazione riguardo la qualità, la temporalità e la durata del sonno, impatta negativamente sulla salute fisica del soggetto e sulla qualità di vita, e spesso si accompagna a disturbi psicopatologici secondari o associati, che quindi vanno trattati anche in un contesto psicofarmacologico e psicoterapeutico.
La narcolessia è correlata a un’alterazione del sonno R.E.M. (una delle fasi del sonno in cui si si ha una maggiore attività cognitiva e durante la quale avvengono i sogni, caratterizzata da un rapido movimento degli occhi) e provoca un’importante disregolazione del ritmo sonno-veglia.
La narcolessia esordisce tipicamente durante l’infanzia e durante l’adolescenza o la prima età adulta, l’esordio negli anziani è raro. Ci sono due picchi di esordio: uno fra i 15 e i 25 anni e un altro fra i 30 e i 35.
L’esordio può essere acuto o progressivo.
Nel 90% dei casi, il primo sintomo che si manifesta è la sonnolenza, seguita da cataplessia. Il sonno eccessivo aumenta in modo rapido fino all’incapacità di rimanere svegli durante il giorno e di mantenere un sonno regolare durante la notte.
La narcolessia impatta notevolmente sul funzionamento globale dell’individuo e sulla qualità di vita. La guida e il lavoro sono compromessi e i soggetti che soffrono di Narcolessia dovrebbero evitare occupazioni e attività potenzialmente pericolose per sé stessi e per gli altri.
Se la narcolessia viene controllata terapeuticamente, i soggetti affetti possono ripristinare almeno in parte il loro livello di funzionamento, per esempio riprendendo a guidare, benché grandi distanze siano sempre sconsigliate.
Anche i costi emotivi possono essere elevati; spesso, per esempio, i soggetti con sintomi di cataplessia tendono a controllare le emozioni per cercare di prevenire gli attacchi, spesso pagando costi sociali ed interpersonali, con maggiore frequenza di equivoci, interazioni sfavorevoli, isolamento e solitudine.
Ad oggi, la narcolessia è una patologia la cui causa non è ancora conosciuta. Recenti ricerche dimostrano il coinvolgimento di numerosi neurotrasmettitori, il più importante dei quali è l’ipocretina, che nei narcolettici si è dimostrata ridotta all’interno del liquor cefalo-rachidiano, fino alla completa scomparsa nel 90% dei soggetti affetti da narcolessia con cataplessia.
È stata inoltre evidenziata una riduzione dei neuroni ipotalamici che producono questo composto in rilievi autoptici di soggetti affetti.
La prevalenza della Narcolessia tra i parenti di primo grado è dell’1-2% (un aumento complessivo da 10 a 40 volte) e sono molti i geni associati allo sviluppo del disturbo. Questo naturalmente indica che i fattori genetici giocano un ruolo fondamentale in questa patologia.
Le caratteristiche essenziali della narcolessia riguardano la presenza di eccessiva sonnolenza diurna,
connotata da sonnellini diurni ricorrenti o da attacchi di sonno.
Essendo un problema di natura neurologica, spesso è caratterizzato e sottotipizzato per la presenza di alterazioni organiche (carenza di ipocretina) e di anomalie al tracciato polisonnografico (latenza del sonno R.E.M inferiore alla media).
Per la particolare natura del problema, quindi, tenendo sempre presente i criteri diagnostici del DSM 5,
di seguito descriveremo le caratteristiche principali della narcolessia cercando di utilizzare un linguaggio
appropriato ma al contempo accessibile per tutti i lettori.
La Narcolessia è caratterizzata e riconoscibile per la presenza di alcuni sintomi fondamentali:
• Eccessiva sonnolenza diurna (impulso irresistibile ed improcrastinabile di addormentarsi, che si manifesta mediamente ogni 2 ore);
• Cataplessia (repentina perdita del tono muscolare, a volte fino alla caduta a terra, in seguito ad una forte emozione come collera, imbarazzo, o riso);
• Allucinazioni ipnagogiche (sogni ad occhi aperti che in alcuni casi interagiscono con la realtà, talvolta sovrapponendosi ad essa);
• Paralisi del sonno (in prossimità delle fasi di addormentamento e di risveglio il corpo subisce una paralisi completa temporanea, nonostante il soggetto sia cosciente).
La manifestazione più lampante della narcolessia è l’eccessiva sonnolenza diurna, che si palesa mediamente ogni 2 ore con attacchi di sonno, che possono durare ciascuno dai 15 ai 60 minuti circa, verificandosi più volte nell’arco di una giornata, solitamente in concomitanza con la fine dei pasti, in situazioni con scarso dinamismo; gli attacchi si sonno, tuttavia, possono presentarsi anche in situazioni inaspettate e potenzialmente pericolose, come ad esempio mentre il soggetto guida.
In alcuni soggetti l’intensità dell’attacco di sonno è progressiva, e ciò gli consente di avvertirne consapevolmente l’inizio e di interrompere qualsiasi attività si stava compiendo all’esordio della crisi.
Dopo un attacco di sonno, il paziente affetto da narcolessia si sente riposato, e ciò accade anche dopo un episodio di breve durata.
Non esistono attualmente cure conosciute per la cura della narcolessia. La maggior parte dei trattamenti prevedono strategie di cambiamento del comportamento, volto a modificare lo stile di vita per favorire un migliore controllo dei sintomi. Alcuni esempi:
• evitare pasti pesanti prima di attività importanti;
• pianificare dei brevi pisolini, di 10-15 minuti (soprattutto dopo i pasti e per ridurre la probabilità di attacchi improvvisi);
• osservare una adeguata igiene del sonno.
La terapia farmacologica si basa sull’utilizzo di diversi principi attivi, usati per lo più per gestire la sonnolenza diurna.
Per quanto concerne la cataplessia, in caso il sintomo si presenti in modo grave ed invalidante si può ricorrere ad utilizzo di farmaci quali: antidepressivi triciclici, SSRI, o venlafaxina.
L’apnea notturna è il più comune tra i disturbi del sonno correlati alla respirazione: per apnea si intende la totale assenza di flusso d’aria dovuta ad episodi di ostruzione delle vie aeree, quando il flusso d’aria non è assente ma ridotto parliamo di ipopnea.
L’apnea e l’ipopnea notturna sono molto comuni, possono infatti manifestarsi nei bambini, negli adulti giovani, di mezza età ed anche di un’età avanzata, tuttavia l’incidenza maggiore del disturbo è rilevata sui soggetti sovrappeso o obesi.
Durante il sonno i muscoli che sostengono le vie respiratorie si rilassano provocandone un restringimento che in condizioni normali non impedisce all’aria di entrare nei polmoni, ma se si è in presenza di apnee notturne questo processo naturale è ostacolato da una serie di fattori.
L’apnea del sonno è una patologia che nella maggior parte dei casi diventa cronica pertanto è fondamentale modificare il proprio stile di vita se si è affetti da questo disturbo, al fine di evitare il suo aggravarsi.
Tale disturbo ha un esordio solitamente insidioso che può verificarsi a qualsiasi età, persistere nel tempo e peggiorare in maniera esponenziale in relazione all’aumento di peso.
I sintomi dell’apnea del sonno subiscono una notevole riduzione quando il soggetto che ne è affetto attua alcune modifiche nel suo tipico stile di vita: il primo fattore responsabile della regressione dei sintomi è la perdita di peso.
Come abbiamo visto il peso è una delle variabili maggiormente responsabili dell’aggravarsi di questo tipo di patologia, per tanto una riduzione dello stesso riduce di gran lunga il numero di apnee notturne.
Altro fattore importante nell’individuazione e la gestione del disturbo è la famigliarità: in una storia famigliare permeata di apnee notturne l’incidenza che ha un soggetto di sviluppare la stessa patologia è molto elevata, per tanto, data l’importanza per il soggetto stesso che vi sia l’individuazione (nonché la diagnosi) di tale disturbo è fondamentale che la suddetta famigliarità sia riferita.
L’importanza di una precisa diagnosi riguardo le epnee notturne sta nella necessità di essere consapevoli del rischio di sonnolenza diurna manifesta e incontrollabile al fronte di evitare lavori, compiti o ruoli che prevedano responsabilità eccessive ed esposizione a pericoli per sé e per terzi, come la guida di un’autobus o l’utilizzo di macchinari pericolosi.
L’apnea notturna è un disturbo che si associa ad una serie di patologie di tipo medico oltre che ad altre patologie di ordine psicologico: tra le condizioni mediche rileviamo ipertensione, insufficienza cardiaca, malattie coronariche, diabete, ictus, morbo di parkinson, tra quelle di tipo psicologico abbiamo la depressione.
I fattori responsabili della presenza di apnea notturna sono i seguenti:
• Eccessivo rilassamento dei muscoli responsabili del restringimento delle vie respiratorie
• Le masse di tessuto della parte superiore della bocca come lingua e tonsille sono troppo grandi rispetto all’ampiezza delle vie respiratorie
• Il restringimento delle vie respiratorie può essere causato da una determinata struttura ossea
• Il restringimento delle vie respiratorie può essere determinato dal processo di invecchiamento che limita la capacità degli impulsi nervosi a mantenere i muscoli del collo sufficientemente rigidi per sostenere il normale processo di respirazione durante il sonno
• Quando il soggetto è in sovreppaso la trachea può risultare inspessita da un tessuto adiposo in eccesso che può limitare il passaggio dell’aria
• Storia famigliare positiva di apnee nel sonno
• Menopausa (nelle donne) ed altre sindromi di tipo endocrino
La diagnosi di apnea notturna è molto difficile in quanto è complicato inquadrare i disturbi che si manifestano soltanto durante il sonno, pertanto è necessario individuarne i sintomi attraverso un’osservazione da parte dei famigliari o del partner, oppure attraverso la rilevazione di comportamenti o sintomi diurni indicatori di un disturbo del sonno.
La polisonnografia permette di rilevare una vasta quantità di dati circa la frequenza dei disturbi respiratori correlati al sonno e sulle relative modificazioni riguardo la circolazione di ossigeno in relazione alla continuità del sonno.
Affinchè vi sia una diagnosi di apnea notturna è necessario che vi siano evidenze polisonnografiche di almeno cinque apnee o ipopnee ostruttive per un’ora di sonno e almeno uno tra i seguenti sintomi del sonno: russamento, sbuffamenti, rantoli, pause respiratorie.
In assenza dei suddetti sintomi indicatori di disturbi della respirazione notturna, le apnee o le ipopnee presenti affinchè vi sia la diagnosi di disturbo cronico devono arrivare per lo meno a quindici per un’ora.
Le manifestazioni diurne osservabili sono le seguenti:
• sonnolenza diurna
• astenia e sonno non ristoratore
• eccessiva stanchezza diurna
• eccessiva sonnolenza (soprattutto nei momenti di inattività)
• mal di testa al risveglio
• difficoltà a concentrarsi
• problemi di memoria e di apprendimento
• irritabilità, sbalzi di umore e alterazioni della personalità
• bocca secca e mal di gola al risveglio.
L’apnea del sonno si cura attraverso la gestione delle patologie alla quale è essa correlata: generalmente non è previsto l’ausilio di farmaci, e la modifica dello stile di vita risulta l’unica vera cura capace di compiere una riduzione dei sintomi.
• Evitare alcool o farmaci che inducono sonnolenza può aiutare ad evitare il restringimento della gola durante il sonno in quanto la non assunzione delle suddette sostanze riduce il rilassamento dei tessuti e dei muscoli responsabili della respirazione
• Di fondamentale importanza è la perdita di peso, in quanto il peso, come già accennato in precedenza, è uno dei fattori maggiormente responsabili della manifestazione del disturbo
• Evitare di dormire supini a favore di una posizione su un lato per lasciare aperte le vie respiratorie
• Usare un apparecchio per i denti se il fattore scatenante delle apnee notturne è stato rintracciato nella posizione della mandibola
• È possibile ricorrere al ventilatore a pressione positiva (strumento creato ad hoc per le apnee notturne che soffiando aria nella gola del paziente consente quindi una respirazione normale)
• In casi più gravi è possibile effettuare un intervento chirurgico al fronte di intervenire sull’organo ritenuto responsabile del restringimento delle vie respiratorie (ad esempio il tessuto in eccesso nella trachea, o le tonsille)
DISTURBO DISSOCIATIVO
I disturbi dissociativi sono caratterizzati da una sconnessione o da una discontinuità nella normale integrazione tra memoria, coscienza, identità, emotività, percezione, rappresentazione corporea, comportamento e controllo motorio.
Questi sintomi possono colpire ogni area del funzionamento psicologico, comportando un funzionamento deficitario dell’area colpita.
I sintomi dissociativi sono vissuti come una intrusione non voluta nella consapevolezza e nel comportamento, unita a una perdita di continuità nell’esperienza soggettiva (sintomi detti “positivi”, come frammentazione dell’identità, depersonalizzazione, derealizzazione).
Altre volte, i sintomi dissociativi sono vissuti come un’impossibilità di accedere alle informazioni o a controllare le funzioni mentali, che normalmente sono facilmente suscettibili di accesso o controllo (sintomi detti “negativi”, come l’amnesia).
Molto frequentemente, i sintomi dissociativi si presentano nel periodo successivo ad un trauma, tuttavia, le manifestazioni legate alla sintomatologia dissociativa possono presentarsi anche in altre circostanze, in quanto, come ogni manifestazione psicologica, derivano da processi complessi, dove entrano in gioco molteplici fattori.
La letteratura scientifica sottolinea che l’attaccamento disorganizzato rappresenta l’esperienza relazionale primaria che costituisce la vulnerabilità alla dissociazione, e quindi a modelli psicologici multipli del sé, che porta a una sensazione di vulnerabilità costante del senso di continuità, unità ed identità della coscienza, che caratterizzano normalmente lo sviluppo della personalità e delle sue funzioni.
Il disturbo dissociativo si compone di varie tipologie e manifestazioni, ma l’esordio, che può avvenire a qualsiasi età, i meccanismi di attivazione, i fattori di rischio responsabili dell’insorgenza del disturbo e alcune componenti, quali ad esempio i comportamenti suicidari, sono comuni a tutte le manifestazioni del disturbo.
I disturbi dissociativi creano un forte disagio clinicamente significativo nei soggetti che ne sono affetti, in quanto essi interferiscono in maniera piuttosto invalidante in tantissime aree della vita quotidiana tra cui quelle applicative come il lavoro, e quelle emotive e relazionali che risultano le più danneggiate e compromesse.
Nel DSM – 5, i disturbi dissociativi vengono trattati immediatamente dopo i disturbi correlati ai traumi, benché non siano inclusi nello stesso capitolo. Questa scelta sottolinea la stretta relazione che c’è tra queste classi diagnostiche, ma anche gli aspetti relativi alla differenza tra loro e alla necessità di riferirsi alla naturale complessità di definire le varie categorie diagnostiche, nel rispetto dei meccanismi e dei processi di sviluppo, sempre e comunque connessi a un modello biopsicosociale.
I disturbi dissociativi comprendono:
1. Disturbo dissociativo dell’identità caratterizzato dalla presenza di due o più stati distinti di personalità o da esperienze di possessione, e da episodi ricorrenti di amnesia. Gli individui con disturbo dissociativo dell’identità sperimentano voci, azioni e discorsi dissociati, impulsi, pensieri ed emozioni intrusive, alterazioni del senso di sé, senso di estraneità nei confronti del proprio corpo e delle proprie azioni, cambiamenti della percezione.
2. Amnesia dissociativa caratterizzata dall’impossibilità di ricordare informazioni autobiografiche, può essere circoscritta ad un evento o ad una determinata situazione, selettiva e cioè che si riferisce a parti specifiche di un evento, o generalizzata, che può riguardare l’identità e storia personale.
3. Disturbo di depersonalizzazione/ derealizzazione è caratterizzato da frequenti esperienze di irrealtà o distacco dalla propria mente, da se stessi o dal proprio corpo, oppure dall’ambiente circostante.
4. Disturbo dissociativo con altra specificazione caratterizzato da sintomi che influiscono sul funzionamento normale ma che non soddisfano pienamente i criteri di nessun disturbo dissociativo.
Le manifestazioni dei disturbi dissociativi variano a seconda dell’area compromessa dal disturbo:
• Disturbo dissociativo dell’identità: si manifesta attraverso una disgregazione dell’identità per periodi prolungati, in cui la durata varia in relazione alla gravità, attraverso la percezione di voci, di entità spirituali, a discontinuità circa il senso di sé e circa la consapevolezza delle proprie azioni, e ancora attraverso amnesie e fughe dissociative che generano una totale quanto temporanea perdita di controllo delle proprie azioni.
• Amnesia dissociativa : si manifesta attraverso un’incapacità a ricordare informazioni autobiografiche, ha varie declinazioni, è spesso circoscritta e selettiva, cioè in relazione a specifici eventi l’individuo ricorda solo alcune parti di un evento traumatico; o generalizzata , più rara, che prevede la completa perdita di memoria della propria storia personale; e ancora sistematizzata , in cui la perdita di ricordi si riferisce ad una specifica categoria di informazioni; o continuativa che prevede la rimozione di ogni nuovo evento. I sintomi causano nei soggetti un disagio clinicamente significativo nonché una compromissione del funzionamento in ambito lavorativo, sociale e relazionale. L’amnesia può essere accompagnata da fuga dissociativa (viaggio volontario o vagare disorientato associati ad amnesia, per la propria identità o rispetto ad altre informazioni autobiografiche).
• Disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione: il primo si manifesta attraverso esperienze di irrealtà, distacco, accompagnate dalla sensazione di essere un osservatore esterno rispetto ai propri pensieri, sentimenti, sensazioni e alla propria percezione; il secondo, attraverso esperienze di irrealtà e distacco in relazione all’ambiente circostante, con una percezione che crea immagini oniriche, deformate, nebbiose o inanimate.
• Disturbo dissociativo con altra specificazione: questa categoria è utilizzata in situazioni in cui i sintomi caratteristici di un disturbo dissociativo predominano compromettendo il funzionamento in ambito sociale, lavorativo e in altre aree importanti, ma non soddisfano pienamente i criteri diagnostici di nessun disturbo dissociativo.
Al fine di ottenere una riduzione della sintomatologia propria del disturbo dissociativo è necessario individuare in prima analisi il tipo di patologia al quale il disturbo si collega: evidenze scientifiche indicano infatti che i disturbi dissociativi sono spesso associati ad altri disturbi quali ad esempio depressione, ansia, bipolarismo, disturbi di personalità, per tanto risulta indispensabile intervenire parallelamente anche sul disturbo in comorbidità.
È stato messo a punto un trattamento psicoterapeutico focalizzato sul lavoro sul trauma e sui sintomi dissociativi spesso correlati, che può essere integrato ai vari programmi terapeuti o utilizzato come approccio a sé: tale metodologia è conosciuta con il nome di EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e la sua area di intervento è la desensibilizzazione e la rielaborazione del trauma attraverso una tecnica basata sull’utilizzo dei movimenti oculari.
Una stimolazione precisa e rapida dei movimenti oculari, infatti, favorisce una migliore comunicazione fra le cellule dei due emisferi cerebrali, che si attivano e si connettono fra di loro, favorendo una migliore comunicazione attraverso l’utilizzo di un processo fisiologico innato e legato all’elaborazione dell’informazione.
Durante una seduta EMDR, il paziente, attraverso la stimolazione oculare rielabora l’informazione fino alla completa risoluzione dei sintomi e alla riduzione della loro intensità e della sofferenza connessa.
Un percorso psicoterapeutico, in casi più gravi associato ad un trattamento farmacologico, risulta essere, sul lungo termine, il tipo di cura maggiormente efficace nella regressione del disturbo dissociativo.
DISTURBO SCHIZOFRENICO ED ALTRI DISTURBI PSICOTICI
La denominazione Disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici incorpora una serie di disturbi caratterizzati da anomalie psicopatologiche che si esprimono in ambito sociale, interpersonale, relazionale, cognitivo e percettivo, attraverso deliri, allucinazioni, pensiero ed eloquio disorganizzato, comportamento motorio disorganizzato o anormale, catatonia, ed una vasta sintomatologia che differisce per durata e modalità d’espressione, a seconda degli ambiti maggiormente intaccati dal disturbo.
I disturbi dello spettro della schizofrenia comprendono:
• Disturbo schizotipico di personalità: prevede delle alterazioni nei contenuti del pensiero che ruotano intorno a tematiche quali la credenza di essere oggetti di un complotto, credenza di un collegamento tra situazioni tra loro slegate, credenze bizzarre e pensiero magico. Il sistema di credenze e percezioni che caratterizza il disturbo schizotipico di personalità influenza il comportamento che trova espressione nell’esasperazione di concetti come la superstizione, la chiaroveggenza, la telepatia e un’accentuazione dei sensi.
• Disturbo delirante: prevede la presenza di deliri per almeno un mese. I deliri possono avere varie tematiche, pertanto il delirio può essere erotomanico , convinzione che qualcuno sia innamorato del soggetto delirante, di grandezza , convinzione di possedere grandi doti o di fare grandi scoperte, di gelosia , convinzione di essere oggetto di continue infedeltà, di persecuzione , convinzione di essere oggetto di cospirazioni, seguito, spiato, molestato o ingannato,di tipo somatico in cui il tema centrale coinvolge funzioni e sensazioni corporee, misto , in cui nessuna tematica è prevalente, senza specificazione , non include nessuna delle tematiche individuate. È importante specificare se i deliri in questione hanno contenuti di natura bizzarra, ovvero se sono non plausibili, incomprensibili e non derivano dall’esperienza di vita reale,
• Disturbo psicotico breve: comporta l’esordio improvviso dei sintomi comuni, ha una durata di almeno un giorno ma meno di un mese, e può contenere o meno marcati fattori di stress, in questo caso i sintomi si manifestano a seguito di eventi che risulterebbero marcatamente stressanti per chiunque o al contrario si manifestano a seguito di circostanze definite stressanti in maniera altamente soggettiva. Questo tipo di disturbo può esordire anche in relazione al postpartum e può presentare catatonia.
• Disturbo schizofreniforme: i sintomi primari, deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento psicomotorio disorganizzato e catatonico e sintomi negativi sono identici a quelli della schizofrenia, ciò che li differenzia è la durata, che per soddisfare i criteri diagnostici di questo disturbo, deve essere maggiore di un giorno e inferiore ad un mese.
• Schizofrenia: i sintomi comportano una gamma di disfunzioni cognitive, comportamentali ed emotive che persistono per un periodo consistente, ma tuttavia non sembrano essere il risultato diretto di alcuna singola caratteristica. Certi segni del disturbo devono persistere per almeno 6 mesi e possono manifestarrsi attraverso una affettività inadeguata, umore disforico, un ritmo sonno/veglia disturbato e disinteresse riguardo l’alimentazione.
• Disturbo schizoaffettivo: prevede la presenza dei sintomi comuni agli altri disturbi annoverati in questa categoria, con in aggiunta un’associazione che soddisfa vari disturbi dell’umore, primo fra tutti il disturbo depressiovo maggiore. Il disturbo è associato al malfunzionamento sociale e lavorativo.
• Disturbo psicotico indotto da sostanze, farmaci o dovuto ad altre condizioni mediche: le caratteristiche essenziali del disturbo psicotico dovuto a sostanze prevedono una valutazione dei sintomi in associazione agli effetti fisiologici indotti dall’assunzione di farmaci, e ciò è previsto anche per quanto concerne il disturbo psicotico dovuto ad altre condizioni mediche che non includono altri disturbi mentali, pertanto quest’ultima deve essere identificata quale eziologia della psicosi.
• Catatonia: la catatonia può verificarsi come espressione di vari disturbi, ed è definita da gravi deficit in ambito psicomotorio che possono manifestarsi attraverso una marcata riduzione delle reattività all’ambiente, marcata agitazione, stereotipia, mutismo. La manifestazione clinica della catatonia può essere sorprendente in quanto le alterazioni psicomotorie possono oscillare tra una quasi del tutto assente reattività ad una peculiare ed eccessiva attività motoria.
Lo sviluppo della patologia dal suo esordio alla remissione dei sintomi varia a seconda del tipo di disturbo considerato:
• Disturbo schizotipico: generalmente l’esordio avviene durante la prima età adulta, ha un andamento spesso costellato da una serie di episodi depressivi e psicotici, presenta una risoluzione che culmina con l’isolamento in risposta al senso di estraneità caratteristico di questo disturbo.
• Disturbo delirante: presenta un funzionamento globale migliore rispetto alla schizofrenia, una compromissione circoscritta ad uno scarso funzionamento lavorativo e la tendenza all’isolamento sociale. Comportamento apparentemente normale se si escludono le tematiche riguardanti i deliri.
• Disturbo psicotico breve: generelmente esordisce durante l’adolescenza e la prima età adulta e data la natura episodica delle sue manifestazioni tipiche, si risolve nel giro di un mese con una completa remissione dei sintomi.
• Disturbo schizofreniforme: allo stesso modo della schizofrenia le manifestazioni psicotiche hanno esordio tipicamente tra la tarda adolescenza e la prima maturità, spesso in maniera improvvisa e insidiosa, attraverso una verietà di segni e sintomi clinicamente significativa, tra cui sintomi depressivi, una compromissione cognitiva persistente anche in caso di remissione degli altri sintomi, e ciò indica la disabilità associata alla malattia.
• Disturbo schizoaffettivo: l’età tipica di insorgenza è la prima età adulta e il periodo totale di malattia è di circa sei mesi suddivisi in tre modalità di manifestazione dei sintomi che nei primi due e nell’ultimo mese sono in prevalenza psicotici, mentre nei tre mesi centrali in aggiunta si associano a sintomi depressivi.
• Disturbo psicotico indotto da sostanze/farmaci ed altre condizioni mediche: questo disturbo si manifesta tipicamente attraverso deliri e allucinazioni che tuttavia devono il loro esordio all’abuso di un farmaco o all’esposizione ad una tossina, pertanto la distinzione da un disturbo psicotico primario è possibile considerando l’insorgenza successiva all’esposizione ad un farmaco, alla sua assunzione o all’astinenza derivante dalla mancata assunzione di quest’ultimo, nonché il cambiamento dei sintomi in relazione al farmaco assunto o alla tossina a cui si è esposti.
La categoria di disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici comprende quell’insieme di anomalie psicopatologiche registrate nei seguenti cinque ambiti:
• Deliri : convinzioni non modificabili anche alla luce di evidenze contrastanti il quale contenuto può comprendere un’ampia varietà di tematiche tra cuipersecuzione, convinzione di essere oggetto di aggressioni, molestie e/o danneggiamenti, che rientra tra le forme deliranti più comuni, riferimento,convinzione che stimoli ambientali, commenti, gesti siano rivolti a se stessi, grandezza , la credenza di avere eccezionali capacità, fama, potere,erotomanici, convinzione infondata di essere destinatario dell’amore di qualcuno, nichilistici , convinzione che si verifichi un evento catastrofico, somaticipreoccupazioni riguardo la salute a il funzionamento degli organi.
• Allucinazioni: esperienze percettive che si verificano senza che vi siano stimoli esterni, sono vivide e chiare e sfuggono al controllo volontario in quanto sono vissute e percepite come reali. Le più comuni sono quelle uditive che si presentano solitamente come voci, familiari e non, distinte dai propri penieri.
• Pensiero disorganizzato (eloquio): si deduce dall’eloquio dell’individuo che può passare da un argomento all’altro mostrando un deragliamento o allontanamento dei nessi associativi, e talvolta può risultare incomprensibile in quanto gravemente disorganizzato, le risposte alle domande possono essere completamente non correlate.
• Comportamento motorio grossolanamente disorganizzato e anormale (catatonia compresa): tale comportamento può presentarsi in vari modi, e il comportamento catatonico è uno di questi, ed indica una marcata diminuzione della reattività all’ambiente. Altre manifestazioni sono i movimenti stereotipati ripetuti, sguardo fisso, mutismo ed ecolalia.
• Sintomi negativi: particolarmente significativi sono la diminuzione dell’espressione delle emozioni che comprende una riduzione delle espressioni facciali delle emozioni, del contatto visivo, dell’intonazione dell’eloquio e dei movimenti di mani, testa e volto, responsabili solitamente di una maggiore enfasi dell’eloquio, l’ abulia si riferisce ad una riduzione nelle attività finalizzate volontarie spontanee, ed un esempio esemplificativo dell’abulia è quando un paziente resta seduto a lungo mostrando scarso interesse nei confronti di attività lavorative e /o sociali. Altri sintomi negativi riguardano l’ alogia che implica una riduzione della produzione verbale, l’ anedonia cioè la diminuzione della capacità di provare piacere da stimoli positivi, l’ asocialità , mancanza di interesse nelle interazioni sociali.
Il comportamento manifesto di questa categoria di disturbi è comune a tutti i disturbi per quanto concerne le espressioni tipiche dei sintomi, ciò che può variare è la durata, la tematica caratterizzante i sintomi, il livello di compromissione degli ambiti maggiormente colpiti dal disturbo, e l’associazione ad altri disturbi.
Isolamento, confusione, tumulto emotivo, compromissione cognitiva, del funzionamento lavorativo, interpersonale, relazionale, alterazione del comportamento e della propria capacità di giudizio sono espressioni tipiche dei disturbi citati con un particolare incremento delle disabilità in ambito psicomotorio proprie della catatonia che è al tempo stesso una manifestazione associata a vari disturbi nonché essa stessa un disturbo.
Affinché si possa procedere con la cura dei disturbi compresi in questo insieme è necessario isolarne le cause e le relative manifestazioni dei sintomi, trattandoli singolarmente e isolandone gli effetti.
Nel caso in cui ad un disturbo psicotico sia associato un disturbo dell’umore è necessario abbinare un trattamento farmacologico ad un percorso psicotarapeutico, consigliabile anche nei casi più gravi e non necessariamente associati ad altri disturbi, in modo da ottenere una remissione dei sintomi, così da poter procedere con la terapia.
Dott. Luigi Terracciano
Psicologo clinico e psicoterapeuta, ipnosi ericksoniana – Napoli
Ordine degli Psicologi della Regione Campania n°3989 – Società Italiana di Ipnosi (S.I.I.)
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